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Gli attacchi ai sistemi infrastrutturali perpetrati nel corso degli ultimi tempi ai danni in particolare dei Paesi baltici e scandinavi hanno posto l’Europa e l’Alleanza Atlantica di fronte al dilemma se far fare ai propri apparati di difesa un salto qualitativo e quantitativo, per giunta su base permanente, quale non si era mai riscontrato in tempi recenti.

Se però le esigenze di tutela securitaria in senso stretto risultano di immediata comprensione a livello di dibattito pubblico, meno indagato è il tema dell’impatto che quelle azioni e il clima generale che ne consegue determinano sulla struttura stessa dell’investimento infrastrutturale e sulle sue articolazioni. Vale la pena, quindi, delinearne i tratti salienti per tentare di misurare tale impatto e valutarne le possibili implicazioni.

Un attivo infrastrutturale tende per sua natura a garantire ritorni (relativamente) stabili, prevedibili e prolungati nel tempo, consentendo così, alla luce anche dell’ammontare elevato di risorse che assorbe, l’ingresso soprattutto nelle porzioni più rischiose della struttura del capitale di investitori – quali i fondi pensione, i fondi sovrani, le assicurazioni e/o le entità che gestiscono i loro attivi – che siano in grado sia di mettere a disposizione tali ingenti risorse sia di far combaciare il profilo temporale delle proprie passività con quello dell’attivo infrastrutturale stesso. In seconda battuta, proprio la qualità e la solidità dei detentori delle tranches inferiori del passivo infrastrutturale amplifica l’effetto leva, facendo affluire ulteriori risorse di natura bancaria o parabancaria al finanziamento complessivo.

Si tratta di un costrutto, come si vede, che presuppone (relativa) stabilità sistemica e assenza di perturbazioni attraverso tutto il suo (lungo) ciclo di vita, con la conseguenza che attacchi fisici o virtuali persistenti che determinino stati di paura collettiva e modificazioni non temporanee delle abitudini dell’utenza dell’infrastruttura possono pregiudicarne la tenuta strutturale. Il ciclo vizioso che si attiverebbe porterebbe a un innalzamento del premio di rischio in grado potenzialmente di allontanare gli investitori aventi le caratteristiche sopra descritte e a un effetto domino lungo la struttura del capitale nella sua interezza.

Una valutazione eccessivamente prudente dell’aumento della rischiosità, che contempli in altre parole solo una contrazionetransitoria dei ricavi o un aumento dei costi di sicurezza e protezione dell’infrastruttura con impatto sì sulla marginalità ma senza ripercussioni sulla configurazione stessa dello stato patrimoniale, rischia infatti di sottostimare, da un lato, la pericolosità in generale degli attacchi in atto, dall’altro, la sofisticazione e la capacità di chi li pone in essere di comprenderne gli effetti in ambiti non confinati al mero danneggiamento fisico. Detto in altri termini, non si può escludere che tra le motivazioni dell’attacco ci sia proprio quella di degradare la qualità, anche solo percepita, dell’infrastruttura colpita agli occhi degli investitori già esistenti o potenziali.

È di qualche giorno fa la notizia che Jaguar Land Rover, azienda automobilistica di proprietà indiana ma che dispiega gran parte della propria filiera produttiva nel Regno Unito, ha fatto ricorso a una forma di garanzia pubblica sui prestiti contratti proprio al fine di ristabilire la funzionalità dell’intera filiera gravemente danneggiata a seguito di ripetuti attacchi cibernetici. La scelta, a detta dei vertici aziendali, è stata obbligata non tanto in sé quanto per garantire la rapidità del ripristino. In altre parole, senza un intervento immediato della mano pubblica a beneficio di un settore assimilabile, da questo punto di vista, alle infrastrutture, i danni alla filiera avrebbero potuto configurarsi come permanenti.

Gli investitori infrastrutturali sono abituati a convivere con il pubblico, ma di regola la sua attività è circoscritta all’ambito regolatorio e la sua presenza, in qualunque forma, nella struttura del capitale riveste carattere di eccezionalità. Viceversa, se interventi quali quello sopra descritto diventano la norma, un nuovo paradigma irrompe sulla scena dell’investimento in infrastrutture in virtù del quale la mano pubblica sarà destinata sempre meno ad accompagnare l’azione dei privati e sempre più a condividerne, in proporzione da determinarsi di volta in volta e a condizione che lo stato generale delle finanze pubbliche lo consenta, l’accresciuto rischio.

Cogestione del rischio e riconfigurazione delle modalità di intervento nella struttura del capitale porteranno con sé anche un nuovo modo di pensare la governance dell’attivo infrastrutturale.

Innanzitutto, qualora l’investimento abbia una dimensione transfrontaliera, alle strutture ministeriali e governative, sia tecniche che politiche, non sarà più richiesto solamente dipredisporre la cornice entro i quali gli accordi saranno stipulati, bensì anche di definire le modalità di intervento diretto nell’assetto nascente da tali accordi.

In secondo luogo, investitore e struttura tecnica pubblica saranno chiamati ad esercitare un’azione il più possibile coordinata in materia di gestione del rischio securitario, attraverso una definizione accurata e condivisa delle metodologie di analisi e dei flussi comunicativi. Allo stesso modo, le figure preposte alla comunicazione dal lato dell’investitore saranno chiamate sempre più ad un’analoga opera di coordinamento con le forze di sicurezza ogni qualvolta si verifichino eventi in grado di compromettere il funzionamento dell’infrastruttura.

Infine, la composizione degli organi di alta direzione (consiglio di amministrazione) dovrà contemplare una presenza più numerosa di figure con esperienza maturata nel vasto mondo della sicurezza nazionale e strutture ad hoc (comitati) all’interno degli stessi dovranno essere create per presidiare questi aspetti cruciali. A cascata, il ruolo ricoperto all’interno dell’organigramma dalle strutture che si occupano di relazioni istituzionali risulterà ampliato, così come il ventaglio di competenze alle stesse attribuito.

Quanto brevemente sopra descritto rappresenta l’approdo necessario, inevitabile del nuovo modo di intendere l’investimento in infrastrutture? Non necessariamente. Tuttavia, le recenti evoluzioni dei rapporti tra potenze globali impongono di non considerarlo come uno scenario remoto perché, come suggeriva il mitologico ricevitore dei New York Yankees Yogi Berra, “the future ain’t what it used to be”.

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