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Il Papa in Bangladesh nomina la parola Rohingya, il traduttore in inglese la omette. “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”, ha infatti detto Papa Francesco, parlando a braccio a Dhaka, nel giardino dell’arcivescovado, durante l’incontro “interreligioso ed ecumenico per la pace” con i rappresentanti di altre religioni e di altre confessioni cristiane, e dove era presente anche un piccolo gruppo di Rohingya.

LA TERZA GIORNATA IN BANGLADESH DEL VIAGGIO DEL PAPA

Ma subito dopo la pronuncia del termine, riporta Mimmo Muolo su Avvenire, tra i giornalisti “è scoppiato un piccolo giallo in merito all’uso della parola Rohingya che alcuni dicevano di non aver ascoltato. In realtà il traduttore in inglese del discorso pronunciato in italiano” ha tradotto “oggi si chiama anche così”. Subito dopo, però, la conferma ufficiale della Sala stampa vaticana: “il Papa ha pronunciato la parola Rohingya”.

Francesco infatti si è diretto nel pomeriggio al padiglione dell’evento, salutando i fedeli in sella a un tradizionale risciò asiatico guidato da un giovane bengalese, dove lo attendevano cinquemila persone di diverse confessioni cristiane e religione. Islamici, hindu e buddisti, oltre ai cattolici. E, vicino a loro, 16 Rohingya, 12 uomini e 4 donne. Dopo aver assistito all’esibizione di musiche e danze tradizionali, e in seguito del saluto dell’Arcivescovo di Dhaka, il card. Patrick D’Rozario, i rappresentati delle comunità religiose e della società civile hanno tenuto dei brevi interventi, citando tutti la tragedia dei Rohingya e condannando il terrorismo e il fondamentalismo, prima di ascoltare le parole di Papa Francesco. Che ha pronunciato un discorso ufficiale ma ha anche parlato a braccio, chiedendo espressamente perdono, in maniera pubblica, per le sofferenze inflitte a questa minoranza.

IL TESTO COMPLETO DEL DISCORSO A BRACCIO DEL PAPA

“Noi tutti vi siamo vicini”, ha detto il Papa rivolgendosi ai Rohingya. “È poco quello che possiamo fare perché la vostra tragedia è molto dura e grande ma vi diamo spazio nel cuore. A nome di tutti quelli che vi hanno perseguitato, che vi hanno fatto del male, chiedo perdono. Tanti di voi mi avete detto del cuore grande del Bangladesh che vi ha accolto. Mi appello al vostro cuore grande perché sia capace di accordarci il perdono che chiediamo”.

Esprimendo, in seguito, un’interpretazione quasi teologica di questo evento, ecumenico e interreligioso. “Nella tradizione giudaico-cristiana Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza”, ha affermato. “Tutti noi siamo questa immagine. Anche questi fratelli e sorelle sono l’immagine del Dio vivente. Una tradizione della vostra religione dice che Dio ha preso dell’acqua e vi ha versato del sale l’anima degli uomini. Noi tutti portiamo il sale di Dio dentro. Anche questi fratelli e sorelle. Facciamo vedere al mondo cosa fa l’egoismo con l’immagine di Dio. Continuiamo a stare vicino a loro perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo il cuore, non guardiamo dall’altra parte. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya. Ognuno ha la sua risposta”.

L’INCONTRO, SIMBOLICO E COMMOVENTE, CON I 16 ROHINGYA

Quindi, al termine della preghiera ecumenica recitata dal vescovo anglicano di Dhaka, mons. Philip Sarka, che come scrive Andrea Tornielli su La Stampa “si è inginocchiato davanti al pontefice chiedendo di essere benedetto”, i sedici Rohingya provenienti da Cox’s Bazar si sono diretti sul palco verso il Santo Padre, accompagnati da due traduttori della Caritas. Lì il faccia a faccia, commuovente e carico di gesti simbolici, con Bergoglio. Che li salutati uno a uno, ascoltando le loro parole, stringendo le loro mani, baciando sul capo il più piccolino. Delle quattro donne, due sono bambine, e le altre due portano velo e niqab, che però lo abbassano di fronte a Papa Francesco, mentre gli operatori degli audiovisivi tagliano immagini e audio. Alcuni di loro scoppiano a piangere, e Bergoglio ci si intratterrà anche alla fine dell’evento.

Nel primo pomeriggio il Papa ha avuto un colloquio con il primo ministro del Bangladesh, la signora Shekh Mujibur Rahman, e con i cardinali e i vescovi della regione. Incontro, quest’ultimo, in cui tra le altre cose ha parlato “della via della vita consacrata come una vera terza via nella Chiesa”, e ha spiegato che “se i capi religiosi si pronunciano pubblicamente con una sola voce contro la violenza ammantata di religiosità e cercano di sostituire la cultura del conflitto con la cultura dell’incontro, attingono alle più profonde radici spirituali delle loro varie tradizioni”.

L’ORDINAZIONE IN MATTINATA DI 16 NUOVI SACERDOTI

In mattinata invece, lasciata la nunziatura apostolica, Francesco si è trasferito in auto al Suhrawardy Udyan Park di Dhaka. Lì, dopo aver salutato i fedeli dalla papamobile, sfiorando persino un incidente per via di un traliccio della luce penzolante, ha celebrato la Messa nella quale ha ordinato sedici nuovi sacerdoti, un numero quindi ricorrente nella cronaca dell’arco della giornata. Visto che sedici sono stati anche i gesuiti che ha incontrato a fine giornata (qui le foto di padre Antonio Spadaro sulla sua pagina Facebook). “C’erano centomila fedeli, una folla immensa in un Paese nel quale i cattolici sono appena 375 mila”, ha spiegato Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera.

Dopo la formulazione rituale, il pontefice si è espresso, rivolgendosi ai presenti alla celebrazione, dicendo: “Siete venuti a questa grande festa di Dio, di questi nuovi fratelli sacerdoti. So che tanti di voi sono venuti da lontano, con un viaggio di più di due giorni: grazie per la vostra generosità”. E ha concluso: “Qualcuno di voi potrà domandarmi: ma come si fa per sostenere un sacerdote? Fidatevi della vostra generosità, il cuore generoso che voi avete vi dirà come sostenere i vostri sacerdoti, ma il primo sostegno del sacerdote è la preghiera. Il popolo di Dio, cioè tutti, tutti, sostiene il sacerdote con la preghiera. Non stancatevi mai di pregare per i vostri sacerdoti. Io so che lo farete!”.

L'incontro del Papa con i Rohingya e quel termine omesso dai traduttori

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