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Il pomeriggio un po’ surreale vissuto dal Partito democratico finisce per essere decisamente utile per capire come stanno le cose a sinistra e per iniziare a guardare oltre la dura sconfitta del 4 marzo (preceduta e seguita da analoghi disastrosi risultati a livello locale, come le quattro batoste su quattro nelle regioni in cui si è votato recentemente, cioè Sicilia, Lombardia, Molise e Friuli).

La riunione di oggi al Nazareno dice molto perché fotografa, grazie soprattutto al segretario reggente Martina che ha svolto la relazione introduttiva, la sostanziale convivenza nel Pd di due anime, destinate prima o poi a prendere strade diverse.
Due anime che hanno nell’ossessivo “noi” di Martina e nel martellante “io” di Renzi la rispettiva cifra stilistica, che diventa rapidamente piattaforma politica, strategia di comunicazione, idea stessa della politica.

Martina ragiona dentro un quadro classico, direi novecentesco, nel quale il partito è il luogo dove si rende contendibile la leadership, dove si formano le alleanze per giocare da protagonisti nella società, dove si costruisce con meccanismi di trasmissione orizzontale (le categorie sociali) e verticale (la struttura periferica) il consenso nel Paese.
Per questo il segretario reggente lamenta l’assenza di analisi sulle ragioni delle sconfitte, per questo insiste con espressioni come questa: “Serve un ripensamento netto su come si sta insieme, su come ci si confronta e si prendono le decisioni dopo essersi ascoltati e aver fatto un confronto con la voglia di costruire una risposta insieme non solo con rapporti di forza”.

Agli antipodi di tutto ciò è invece la concezione della politica di Matteo Renzi, tutta proiettata sul rapporto diretto tra il leader e il suo pubblico (e la parola non è casuale). L’ex premier ha in totale disprezzo lo schema classico e lo si è visto benissimo in questi giorni: per cancellare ogni senso politico della riunione odierna ha scelto la tribuna di Fabio Fazio domenica, plastica dimostrazione della sua totale sfiducia nella mediazione partitica.

Renzi gioca da leader che non vuole intorno a sé organismi che svolgano funzione diversa da quella decorativa, Martina crede nella liturgia di partito, magari governata con robusto centralismo democratico.

Renzi ragiona in modo più simile a Berlusconi e Salvini (ma anche a Bertinotti e Vendola), Martina (senza dichiararlo) guarda con curiosità al movimento di Casaleggio e Grillo, perché lì c’è anche un tentativo di superare contemporaneamente il partito del novecento e la leadership non contendibile.
Intorno a queste due inconciliabili posizioni si muovono tutti i vecchi e nuovi dirigenti del Pd, anch’essi appartenenti a due “etnie” lontane anni luce, come se un gruppo di eschimesi impellicciati uscisse a cena con allampanati watussi.

In ballo insomma non c’è la collocazione al governo (e con chi poi?) del Pd, c’è molto di più. C’è una comunità divisa da una barriera invalicabile, figlia di visioni sostanzialmente inconciliabili. Prenderne atto farà bene a tutti.

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