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Google non cede all’Unione Europea ed è pronta alla battaglia legale. Dopo la multa da 2,4 miliardi comminata lo scorso giugno dalla Commissione per presunte violazioni della libera concorrenza, Alphabet Inc., la casa madre del colosso di Mountain View, ha presentato ricorso alla Corte di giustizia europea. Lunedì 30 ottobre il contenuto del ricorso, nel quale sono riassunte le posizioni di Google, è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea.

COSA CHIEDE MOUNTAIN VIEW

Due le richieste di “Big G”: annullare la decisione della Commissione del 27 giugno, in cui è stata decisa la sanzione e, in subordine, annullare o ridurre l’ammenda. Inoltre, Google chiede alla Commissione di sostenere le spese legali del procedimento.

La vicenda, a suo tempo, ha fatto molto scalpore, soprattutto per l’importo rilevante della multa, 2,4 miliardi di euro. Sotto accusa era finito il servizio Google Shopping tramite cui Mountain View avrebbe esercitato una posizione dominante sul mercato derivata dal suo ruolo di fornitore del servizio di motore di ricerca.

COME FUNZIONA GOOGLE SHOPPING

Google Shopping è un servizio di comparazione prezzi. Questo il meccanismo: quando gli utenti cercano sul motore di ricerca un oggetto, per esempio “televisore”, vengono mostrati, in cima alla pagina dei risultati, alcuni link ai negozi online dove è possibile acquistarlo, con tanto di foto e prezzo. Google Shopping non è l’unico servizio di comparazione prezzi, e sono proprio i competitor ad aver “denunciato” Mountain View a Bruxelles. Costoro hanno lamentato il fatto che il servizio di Google, sfruttando i propri privilegi di provider di servizio di ricerca, di fatto li tagliava fuori dal mercato. Dopo una procedura durata anni, la Commissione europea ha dato ragione ai concorrenti, multando Big G.

A settembre Google ha accettato di modificare il servizio: ha deciso di mettere all’asta gli spazi precedentemente “regalati” a Google Shopping, in modo da consentire anche ai competitor di accedervi. Google Shopping, che ora è gestito da una società ad hoc, agisce in questo caso come un qualunque soggetto sul mercato e, hanno assicurato da Mountain View, non gode di alcun trattamento privilegiato. La soluzione, però, non ha soddisfatto i concorrenti, i quali invece lamentano il fatto che Big G ora potrà avvantaggiarsi ulteriormente, incassando i proventi delle aste.

PERCHÉ LE ASTE NON FUNZIONANO

Peraltro pare che il sistema non abbia preso piede. Il Financial Times ha condotto un esperimento, cercando sul motore di ricerca 500 prodotti, in sei paesi. Il 99% dei Google ads erano comunque di Google Shopping, segno che i competitor non stanno partecipando alle aste.

I motivi sono vari, ma il principale riguarda il funzionamento dei servizi di comparazione prezzi. Buona parte di essi guadagnano tramite i click degli utenti. Ciò significa che i siti che vendono i prodotti sono disposti a pagare i siti di comparazione prezzi per comparire per primi negli elenchi. Il problema è che alcuni siti di comparazione prezzi funzionano diversamente, e guadagnano con provvigioni sulle vendite. Quindi, solitamente, mostrano per primi i prodotti che costano meno, e non quelli del negozio online che paga di più. Proprio questi siti – assieme ai consumatori – sarebbero i più svantaggiati dal sistema di aste introdotto da Google, perché dovrebbero cambiare radicalmente la propria filosofia e il proprio business.

COSA SOSTIENE GOOGLE

La tesi di Google, che peraltro ha sempre sostenuto durante tutte le fasi del contenzioso, parte da un altro presupposto: i “competitor” di Google Shopping non sarebbero tanto gli altri siti di comparazione prezzi, quanto piuttosto Amazon, Ebay e altre piattaforme su cui, quasi automaticamente, gli utenti cercano prodotti bypassando i motori di ricerca. Sono proprio i leader dell’e-commerce che si avvantaggerebbero dalla “stangata” a Big G.

Attorno a questo assunto ruotano quasi tutte le sei motivazioni che i legali del colosso del web hanno portato a sostegno del loro ricorso. In sintesi, la linea di Big G è di aver semplicemente cercato di fornire un servizio migliore agli utenti e non di aver voluto favorire se stessa. Peraltro, Mountain View contesta il fatto che il suo sistema di ads abbia avvantaggiato il suo servizio di shopping a danno gli altri. Contesta inoltre la decisione della Commissione di multare Alphabet sostenendo che “il caso poteva essere risolto mediante l’assunzione di impegni da parte del destinatario”, cioè in sostanza introducendo il sistema delle aste. Da ultimo, Google non concorda sull’importo dell’ammenda.

A questo punto la patata bollente passa alla Corte di giustizia europea. In 38 anni, il Tribunale con sede a Lussemburgo non ha mai ribaltato una decisione della Commissione.

Ecco come Google risponde a Bruxelles. Tutti i dettagli sul ricorso contro la maxi-multa Ue

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