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Chi avrebbe mai pensato che l’uscita di un libro sulla politica potesse avere lo stesso successo del primo volume di Harry Potter, capolavoro fantasy di J.K.Rowling. Michael Wolff, scrittore, giornalista con una carriera pluridecennale fra testate come USA Today, Holliwood Reporter e GQ, ci è riuscito. Raccontando la Casa Bianca con il suo “Fire and Fury”, bestseller mondiale detestato dal presidente Trump e da chi gli sta attorno, accolto con gioia da una parte (non tutta) dei democratici e in generale dei liberal d’oltreoceano. A Roma, nell’Hotel de Russie di via del Babuino, Wolff entra in una sala gremita di giornalisti per raccontare la Casa Bianca di Trump. Ha sul volto tutta la soddisfazione di due mesi di tour internazionale fra interviste e file chilometriche per i firmacopie.

Ma alle spalle anche tante critiche: c’è chi considera Fire and Fury un libro poco affidabile, chi invece dà a Wolff del misogino per l’accusa velata, ma non troppo, di un affaire extra-matrimoniale, consumato sull’aereo presidenziale fra Trump e l’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley, che ha definito “disgustose” le allusioni dello scrittore. Gli chiediamo se ha dei rimpianti per quell’uscita infelice. “C’è stato un panico all’interno dell’amministrazione a causa della sua eccessiva vicinanza al presidente, che l’ha messa in una posizione di inappropriata di influenza” risponde lui a Formiche.net. Ribadendo poi quanto ha scritto nel libro: “L’unica cosa che ho scritto è che la Haley è stata molto vicino al presidente e ha cercato di diventare il prossimo segretario di Stato”. In pochi, ci spiega, fanno i salti di gioia all’idea di un cambio al vertice del dipartimento di Stato fra la Haley e Rex Tillerson: “Diverse persone all’interno dell’amministrazione pensano che lei non sia la persona giusta”. Come è noto, Wolff è poi riuscito a innescare fire and fury fra Trump e il suo ex capo stratega Steve Bannon, compromettendo un rapporto già congelatosi nei mesi precedenti. Wolff vede Bannon ancora in campo, anche se fuori dal palazzo: “Bannon ha 2 scelte che sta soppesando: una è tentare di riparare la sua relazione con Trump, e tornare nell’amministrazione con qualche ruolo, l’altra è abbatterlo, e diventare un leader dell’opposizione”.

Trump lo ha scandito a più riprese: Wolff ha avuto “zero access” nella sua Casa Bianca. Eppure a sentire lo scrittore di accesso ne ha avuto eccome, e più di chiunque altro. “Nessuno sapeva cosa stessi facendo lì dentro” racconta alla stampa, “ho parlato di recente con uno degli uomini vicini ad Obama e mi ha detto che era sconvolto, nella sua Casa Bianca non sarebbe mai successo”. Se le responsabilità delle crepe del sistema sono generali, Wolff non ha dubbi: “molte delle falle arrivavano direttamente da Trump. Lui passa tutto il giorno al telefono, quell’uomo non ha auto-controllo: è Trump il più grande leaker della Casa Bianca”.

Per capire come Wolff sia riuscito a penetrare all’interno dell’amministrazione come un coltello nel burro bisogna fare un passo indietro e tornare agli anni ’90. “A quel tempo scrivevo una rubrica per il New York magazine, ero uno di quelli che Trump chiamava per lamentarsi di quel che era stato scritto, o meglio, di quel che non era stato scritto su di lui” ricorda Wolff all’Hotel de Russie. Il contatto con il Tycoon sopravvive negli anni, Wolff è un giornalista di fama, Trump non lo dimentica. Così, all’alba della nomination repubblicana per la corsa presidenziale, nel giugno del 2016, le due strade si reincrociano. Wolff scrive un ritratto dell’improbabile candidato repubblicano, che sembra apprezzare il risultato. “Mi disse che era una copertina cool” racconta Wolff sorridendo, “avrà visto la fotografia, sospetto che non abbia letto l’articolo”.

Calmatesi le acque per il successo del novembre 2016, Wolff mette in atto il suo piano. In un pomeriggio di febbraio dello scorso anno squilla il telefono nella sua casa newyorkese: è Donald Trump. Lo scrittore ci parla per una buona mezz’ora, poi attacca e si rivolge alla moglie: “la buona notizia è che il presidente degli Stati Uniti mi ha appena chiamato; la cattiva è che è completamente pazzo”. Segue un primo incontro alla Casa Bianca, racconta Wolff: “pensava che gli volessi chiedere un lavoro, gli ho spiegato che volevo scrivere un libro e mi ha risposto sure, okay! Da allora ho iniziato a chiamare persone all’interno della Casa Bianca dicendo che stavo scrivendo un libro con l’approvazione del presidente”.

Superato il primo scoglio, quello di trovare un movente credibile, le porte della West Wing si sono aperte allo scrittore senza farsi pregare. “Entravo dalla cancellata, mi apriva una guardia inespressiva, c’era una sala con un divano al centro e io passavo la vita ad aspettare, ero diventato parte dell’arredamento”. Così, anche quando gli appuntamenti con i big come Steve Bannon slittavano di ore, Wolff riusciva a intercettare per una chiaccherata su quel divanetto il personale di passaggio, divenendo, parole sue, “una mosca sulla parete”.

Oggi il suo libro ha già venduto 1,6 milioni di copie, e ben 32 Paesi hanno chiesto i diritti di pubblicazione. Inutile dirlo, perché il presidente ha avuto modo di chiarirsi a suon di tweets al vetriolo, Wolff per Trump è fumo negli occhi. Lo scrittore ricambia l’antipatia, e non nasconde il suo disprezzo per l’amministrazione: “Questa Casa Bianca ha un livello di tossicità che infetterà chiunque vi venga associato”. Wolff ripone però poche speranze nell’inchiesta sul Russiagate, che non scalfirà Trump: il procuratore Mueller non riuscirà a provare nessun capo d’accusa, perché “per farlo dovrebbe dimostrare l’intenzionalità, cosa difficile quando si ha a che fare con persone stupide”.

Fire and Fury, Michael Wolff a Formiche: Nikki Haley ha un'influenza inappropriata su Trump

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