Skip to main content

Quel mondo fatto di tanti e diversi luoghi di riflessione nei quali si è costruito il pensiero umano nei secoli semplicemente non c’è più.

Alcuni se ne accorgono solo ora perché La Repubblica e La Stampa non saranno più di proprietà di imprenditori italiani: è come accorgersi che è inverno perché è chiuso lo stabilimento balneare.

Non è solo il mercato europeo, bellezza: siamo in un cambiamento più profondo.

Un’idea ha bisogno di luoghi in cui formarsi e dispiegarsi nel rapporto con l’altro e con la realtà. Luoghi fisici abitati dai corpi e luoghi immateriali frequentati dai pensieri e dalle riflessioni.

Questi luoghi sono stati una costante del Novecento politico: le scuole, le università, le fabbriche, le assemblee, le feste locali e quelle politiche, le sezioni di partito, i centri studi, i salotti e i caffè letterari, le manifestazioni di piazza e i cortei, le sedi delle istituzioni in particolare i consigli comunali, quelli regionali e le camere, i giornali, le case editrici e così via.

Si trattava di forme di uno stare insieme per contaminarsi ma anche luoghi che costruivano idee che abitavano l’identità dell’uomo sociale che apprendeva categorie, più o meno elaborate, che lo accompagnavano nella vita, sia che egli ne fosse cosciente, sia che ne subisse un inconscio fascino ordinatore che lo aiutava nella cognizione della realtà.

Quelle fucine di incredibile elaborazione erano presupposto di innovazione, ma anche modalità di semplificazione del mondo allorché partorivano chiavi di letture unitarie, uniche e ideali. Tenevano insieme la libertà del singolo con la consapevolezza dello stare insieme.

Hanno incluso nella vita politica generazioni di soggetti culturalmente ai margini del Paese grazie all’elaborazione.

Oggi il pensiero non ha più questa miriade di luoghi per formarsi. Vive nelle dinamiche rapide e compulsive delle nostre relazioni sociali che sono in special modo, come sappiamo, mediate dalla tecnologia, dai social e dagli smart-phone.

I confronti si radicalizzano quasi immediatamente e diventano infruttuosi e le persone si chiudono in bolle con i propri simili.

Parte dell’editoria si è disabituata all’apertura e al confronto delle idee e non contribuisce più da tempo alla costruzione del pensiero libero.

Alcune delle attività editoriali più grandi sono in mano ad imprese di altri più redditizi campi che investono (a perdere) per avere un’arma di comunicazione nelle dinamiche sociali e politiche del Paese.

Uscite dal Paese le imprese “connesse” al gruppo di La Repubblica e La Stampa, sembra coerente che quell’imprenditore decida di lasciare l’attività editoriale.

Credere che mantenere in mani italiane uno o due dei – sempre meno letti – quotidiani italiani possa salvarci dalla “fine dei luoghi” di formazione del pensiero è pura illusione.

Si fa fatica ad essere sede di costruzione di pensiero se c’è da “tenere una linea” o quando l’indignazione democratica agisce verso una piccola casa editrice fiorentina e fa salve altre pubblicazioni che legittimano Stalin.

Non è che in Accademia vada sempre meglio. Gli esami e le tesi di laurea riescono sempre meno a diventare occasioni di pensiero nuovo.

I convegni sono tanti, le presenze non sempre numerose e il dibattito a volte insufficiente. A seminari di assoluta qualità trovi poche persone o, peggio, solo soggetti che “devono starci” per omaggiare l’organizzatore di turno.

Neppure l’Accademia stessa riesce sempre a conservare le sue forme che, per quanto la riguardano, sono addirittura di secoli precedenti al Novecento.

Perché è accaduto tutto questo? Una certa parte della cultura della sinistra italiana ha trasformato alcuni di quei luoghi editoriali e accademici – soprattutto dagli anni Settanta – in contenitori di omogeneità e ad un certo punto finanche in aggregati di fedeltà; peraltro, di una fedeltà sempre meno ad una idea e sempre di più ad un gruppo o ad un leader. Insomma li ha resi “luoghi chiusi” come bolle non comprendendo la maggiore autonomia con la quale oggi riflettono liberamente le persone.

Sappiamo che è sempre più difficile “fare pensiero” in alcuni contesti accademici radicalizzati e chiusi in sé stessi, che non vogliono uscire dal solco della loro “scuola” la fedeltà alla quale si sostanzia nella selettiva citazione solamente di una parte della dottrina.

A maggio scorso, durante una lectio in Sicilia, una sfortunata collega (sì sfortunata, perché tale è chi non riesce a vivere la diversità) ha urlato in sala, mentre parlavo, “per fortuna che all’Università non si studia von Hayek!”.

Occorre salvare la funzione di costruzione di pensiero e darle dei luoghi nuovi superando l’impostazione di troppi che è condizionata dalla logica dell’appartenenza mentre ora servirebbe l’opposto ossia la logica della apertura.

Costruire luoghi di apertura appare l’unica strada che la cultura e la politica italiana possono percorrere per ridare una casa al pensiero senza scambiare la replica di slogan per elaborazione culturale.

Serve creare luoghi di libertà nel pensare e nel proporre, competizione delle idee e delle proposte, come fa già in certi casi la politica, da anni alla Leopolda, in alcune isolate scuole di partito e ora in modo evidente anche ad Atreju, ma non a certe feste di partito dove si celebra, salvo rari casi, un rito consumato nonostante la grande passione di tantissimi straordinari militanti.

Non serve – per capirci – rinchiudersi in qualche borgo trendy a cantarsela e suonarsela tra sodali.

Neppure servono Università, luoghi dell’apertura per antonomasia, impegnate in un surreale dibattito interno ed esterno se fare o meno questa o quella iniziativa politica o se invitare questo o quell’esponente istituzionale o scientifico.

Fanno bene Carlo Calenda e alcuni ministri a girare gli Atenei. Un plauso alle Università che aprono le porte a tutti i politici e a tutte le istituzioni e che non si perdono inseguendo una inconferente funzione di neutralità culturale intesa come chiusura: arene di confronto aperte a tutti.

Abbiamo assistito in questi mesi a cosa accaduto negli Atenei rispetto alla crisi mediorientale o all’ondata di estremizzazione della cultura woke con tanto di cancel culture ed eccessi del politicamente corretto.

Se anche l’Università si chiude, diventa luogo di omogeneità e non di diversità pulsante, allora dovremmo davvero preoccuparci, perché sarebbe ben più grave del passaggio di proprietà di qualche giornale che non potrà più ospitare la recensione del libro del capocorrente di turno o dare sponda alle dichiarazioni di un politico.

Apertura fisica ma non solo. La rete, i social e gli algoritmi pretendono che il sapere scientifico e l’Accademia scendano in questa arena per costruire pensiero.

Per farlo servono studiosi seri, preparati, inclini all’apertura, empatici e liberi, capaci non solo di divulgare ma anche di dare skills senza banalizzare.

Serve un nuovo linguaggio che costruisca le condizioni del pensare e i presupposti della contaminazione virtuosa del confronto in quell’erotica dell’insegnamento che costruisce il vuoto e non riempie sacchi per dirla con Massimo Recalcati.

Non tutti gli accademici amano l’esposizione pubblica, c’è chi legge gli appunti mentre fa lezione e chi senza le slides ha una crisi di panico, ma per l’arena della rete serve coraggio: se l’Accademia non fa più pensiero non serve più al Paese.

Dobbiamo aprire gli Atenei e uscire dagli Atenei per ricostruire i nuovi luoghi dove nascono le idee cogliendo l’occasione della maggiore libertà di comunicazione di cui godono gli individui grazie alla tecnologia.

Servono nuovi "luoghi aperti" dove far nascere le idee. Il taccuino liberale di Sterpa

Di Alessandro Sterpa

Poco conta che La Repubblica e La Stampa non saranno più “italiane”. È il mercato bellezza. Le idee nascono nei “luoghi aperti”: le Università devono aprire le proprie sedi per ricostruire i nuovi luoghi dove nascono le idee cogliendo l’occasione della maggiore libertà di comunicazione di cui godono gli individui grazie alla tecnologia. L’opinione di Alessandro Sterpa, professore ordinario all’Università della Tuscia

Una potenza di equilibrio, l’Italia nel nuovo disordine globale vista da Zeneli

Di Valbona Zeneli

Fondamenta economiche più solide rafforzano la credibilità strategica dell’Italia e sostengono una politica estera più incisiva. La sfida ora è tradurre questa forza in crescita economica sostenibile di lungo periodo e migliori opportunità per i cittadini, diversificando i mercati e rafforzando la presenza nelle economie emergenti. L’analisi di Valbona Zeneli, nonresident senior fellow presso l’Atlantic Council’s Europe Center

Un viceministro di Taiwan in Israele. Taipei ampia le capacità di difesa dalla Cina

Un recente viaggio non annunciato del vice ministro degli Esteri taiwanese, Francois Wu, in Israele segnala un ulteriore avvicinamento tra Taipei e Gerusalemme sul terreno della cooperazione strategica, in particolare in ambito difensivo

Indo-Mediterraneo e underwater. Fincantieri traccia la rotta strategica

La strategia di Fincantieri tra India e Indo-Mediterraneo, tra cooperazione industriale e sicurezza dei corridoi marittimi e digitali. Al centro, la cantieristica e la protezione delle infrastrutture subacquee come fattori chiave della sicurezza economica europea, spiega l’Evp Cisilino

Perché la Gen Z si affida agli influencer e perché è un problema di sicurezza. La riflessione di Pigozzi

Di Lorenza Pigozzi

La Gen Z si informa sempre più tramite influencer: per gli under 30 la fiducia nei social ha ormai eguagliato quella nei media tradizionali, segnando la fine dell’autorità giornalistica come filtro centrale della verità. La percezione di “autenticità” batte l’accuratezza, aprendo la strada a un’informazione emotiva, non verificata e facilmente manipolabile. Secondo l’analisi di Lorenza Pigozzi, questo squilibrio rappresenta una vulnerabilità strategica per le democrazie e un nuovo fronte di rischio per la sicurezza cognitiva

L'unità sindacale non tornerà. Merlo spiega perché

L’unità sindacale, almeno sino a quando la Cgil sarà guidata da Landini e il progetto politico del sindacato rosso sarà questo, è per il momento archiviata. La riflessione di Giorgio Merlo

Sull'energia l'Italia è una Ferrari guidata troppo piano. Scrive Becchetti

Il problema fondamentale di una svolta energetica sono i colli di bottiglia della burocrazia e della politica in un settore tutt’altro che libero e fortemente regolamentato. Dove è essenziale trovare una quadra che tenga assieme le esigenze dello Stato, dei cittadini e delle imprese. L’analisi di Leonardo Becchetti

Vi racconto il ruolo (delicato) dell'Italia per l'Ucraina. Parla Calovini

Il deputato di FdI presente a Leopoli su delega del ministro Foti ha spiegato a Formiche.net la posizione italiana, in linea a quella della maggioranza dei Paesi: “Noi siamo fortemente convinti dell’opportunità che l’Ucraina faccia parte dell’Unione europea ma siamo nel contempo dell’idea che non si possano fare particolari favoritismi nel rispetto di altri Paesi candidati, come ad esempio l’Albania, che ormai sembrerebbe pronta”

Le industrie aerospaziali e della difesa europea sono in ottima salute. L’analisi di Braghini

Di Fabrizio Braghini

L’industria aerospaziale e difesa europea registra nel 2024 performance positive, con ricavi in crescita del 10% e oltre un milione di addetti. La difesa traina il comparto, mentre aeronautica civile e spazio mostrano incrementi più moderati. L’analisi Asd Europe fornisce dati dettagliati su fatturato, forza lavoro, export e R&S, diventando un punto di riferimento per comparazioni internazionali con gli Stati Uniti e le altre economie. L’analisi comparata di Fabrizio Braghini

Da Tajani a Salvini, tutti i dubbi dell'Italia sugli asset russi

A poche ore dal congelamento sine die delle riserve della Banca centrale russa, sancito dall’Unione Europea, Roma mostra i primi segni di nervosismo sulla volontà di andare fino in fondo nella monetizzazione degli asset. E da Mosca sono in arrivo le prime rappresaglie

×

Iscriviti alla newsletter