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Che Papa Francesco “faccia politica” è evidente. Ma perché la faccia proprio ora e senza suscitare le reazioni di sdegno che un tempo le “interferenze” papali generavano, è la questione da mettere a tema. A tacere, a non manifestare sdegno, sono ora proprio i cosiddetti “laici”. Al massimo è dato registrare presso alcuni di loro qualche distinguo, e un po’ di imbarazzo. Come è noto, il concetto di laicità, con la sua netta separazione di Stato e Chiesa, foro privato e politiche pubbliche, è ancipite: può trasformarsi facilmente in una nuova e intollerante dogmatica che pretende di escludere le idee cattoliche dallo spazio politico. Può trasformarsi, cioè, in laicismo.

Che gli uomini di fede, a cominciare dal Pontefice, abbiano il diritto di dire la propria e di far pesare la loro forza, dovrebbe essere assodato in una democrazia liberale. Tanto più che la Chiesa ci ha abituato da tempo a non parlare con una voce unica. Il pontefice però è anche il capo di uno Stato, particolare sia per la sua matrice confessionale sia per la sua collocazione geografica. Lo Stato vaticano è incastonato all’interno del nostro, e con l’Italia ha non solo rapporti di buon vicinato ma anche una infinità di interessi (e privilegi) in comune. In questa situazione, l’accortezza o prudenza politica ha in passato suggerito alla Chiesa di Roma di muoversi sempre con passo felpato. Cioè con quella diplomazia, di cui è storicamente maestra. Perché Francesco non ne tiene conto ed entra a gamba tesa, con una scelta dei tempi a dir poco sospetta, nel dibattito politico italiano sull’immigrazione? Diciamo che quello del Pontefice è un vero e proprio schiaffo assestato in questo momento all’Italia (oltre che ovviamente alla maggioranza governativa che sulla questione dello “jus soli” corre il serio rischio di spaccarsi).

Non dimentichiamo che “schiaffi” del genere al nostro Paese sono stati recentemente assestati, in diversi settori, da Paesi che pure sono da considerarsi nostri alleati, a cominciare dalla vicina Francia. La debolezza con cui viene percepito il nostro Stato, non capace di tutelare i propri interessi perché economicamente in difficoltà e politicamente instabile, va sicuramente considerata. In questo senso, la Chiesa sa che mai momento fu più propizio dell’attuale per affermare le pretese che ha sempre creduto di avere su uno Stato che l’ha espugnata e che si è affermato su quelli che furono i suoi territori. Facendo, fra l’altro, prevalere le sue prerogative alla luce di una forte impronta laica, se non laicista. D’altronde, la laicità (e il laicismo) si legano indissolubilmente allo Stato (e allo statalismo): per far valere la separazione fra Stato e Chiesa, bisogna che uno Stato sia forte e bisogna che in esso credano i suoi cittadini. Questa impronta, particolarmente visibile nell’età liberale, cominciò a essere scalfita dal fascismo coi i Patti lateranensi. I quali, come è noto, per impulso di Togliatti, furono pari pari riconfermati nella Costituzione repubblicana. D’altronde, le culture politiche o ideologie dominanti nella prima Repubblica furono proprio quelle comunista e cattolica, entrambe critiche, seppur per diversi motivi, dell’Italia liberale o prefascista.

Non si tratta, in questo caso, di chiamare in giudizio solamente il cattocomunismo, che fu a ben vedere corrente influente ma circoscritta. Si tratta piuttosto di portare l’attenzione sul fatto che entrambe quelle culture erano universalistiche, non legate cioè in modo particolare allo Stato nazionale, anzi diffidenti verso di esso e tese ad affermare degli ideali morali generali di cui in qualche modo gli Stati dovrebbero ai loro occhi farsi strumenti. Ne conseguì anche il discredito generale in cui incorse, in età repubblicana, la stessa idea di Patria. La mia è ovviamente una lettura schematica che tiene fuori dalla prospettiva ambiti di realtà certo non irrilevanti (si pensi, solo per fare un esempio, alla schietta funzione laica svolta da un Alcide De Gasperi). Se essa ha tuttavia un senso, non dovrebbe però meravigliarci più di tanto il fatto che, sommandosi la crisi attuale dello Stato italiano ad una più generale crisi dello Stato nazionale, il Papa può essere quanto meno sicuro che le sue invasioni di campo non saranno contrastate più di tanto nei fatti.

Certo non lo saranno in tutta quella vasta area culturale che sbraita contro il “sovranismo” e sogna agglomerati sovranazionali (tipo una federazione europea) o addirittura il kantiano cosmopolitismo. Quale momento più opportuno per agire, dal suo punto di vista? Senza poi contare che questo Papa, percepito come di “sinistra” e che comunque ha avuto il gradimento di quegli ambienti, non può minimamente suscitare apprensione in coloro che fino a ieri professavano fede nella laicità nell’ottica del più classico “doppiopesismo” italico, cioè solo e unicamente perché le pressioni e le ingerenze venivano da “destra” e concernevano politiche comunemente “di destra” giudicate (mi riferisco in primo luogo a quelle concernenti la difesa delle tradizionali “politiche della vita” cattoliche). La partita giocata da Bergoglio ha molte incognite. Credo che però anche su di essa si misurerà il futuro dell’Italia come nazione, il futuro del nostro Stato nazionale.

Papa Francesco

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