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Quello che colpisce dei kenioti è la mancanza di qualsiasi preoccupazione per il futuro. “Wathever happens, happens” commentano sempre, vivendo il presente e senza pensare al domani. Hakuna Matata, in swahili. Anche nel pieno della più grande crisi politica e costituzionale della loro storia.

Il Kenya ha celebrato la sua seconda tornata elettorale, dopo lo storico pronunciamento della Corte suprema che ha annullato le elezioni dell’8 agosto scorso per conclamati brogli elettorali cambiando la storia dell’Africa. Per la prima volta, un sistema di pesi e contrappesi tutto interno a un paese africano ha mostrato di poter essere efficace. Ma a preoccupare è ora l’instabilità politica.

Uhuru Kenyatta, 55 anni, presidente in carica, si presenta per un secondo mandato contro Raila Odinga, 72 anni, leader della coalizione Nasa alla sua quarta campagna elettorale. Che però si è ritirato dieci giorni fa, nel tentativo esplicito di boicottare e annullare in extremis anche questo secondo voto. Una richiesta non solo sua: mercoledì si è pronunciata la Corte suprema sulla petizione di tre avvocati che chiedevano il rinvio. O meglio, non si è pronunciata. Due giudici non si sono presentati, senza giustificazioni, e mancava il numero minimo. La guardia del corpo di uno dei due è stata trovata uccisa la notte precedente, allungando la scia di sangue su queste elezioni che stanno paralizzando il paese. Un membro della commissione elettorale si è dimesso ed è fuggito negli Stati Uniti, a seguito delle minacce ricevute. Il presidente della stessa commissione ha affermato che oggi il Kenya non è pronto a votare. Cinquanta diplomatici internazionali hanno caldeggiato un rinvio, per evitare che la dialettica politica già aspra possa precipitare nell’abisso della violenza etnica. Intanto sono già 38 i morti accertati in violenze dall’8 agosto scorso, e le ONG internazionali continuano a denunciare i metodi brutali della polizia.

Ma la macchina elettorale è avviata. Il governo di Kenyatta, forte di una maggioranza parlamentare schiacciante, ha confermato con le parole e soprattutto coi fatti che il voto giovedì è garantito ovunque.

I seggi sono pronti, le schede stampate e distribuite, il Kenya ha stanziato per la seconda volta in pochi mesi le risorse necessarie per assolvere a quest’immenso esercizio democratico. Il più costoso della storia dell’Africa, con la sua campagna elettorale che pur vive sempre e ancora di musica, danze e tribalismi. Una contraddizione nel paese delle contraddizioni, perennemente in bilico tra gli estremi limiti della povertà e della ricchezza, delle opportunità e della rassegnazione.

Il Kenya è da sempre diviso dal tribalismo, geograficamente e culturalmente. E se l’immaginario collettivo occidentale è riempito dalle immagini dei nomadi Samburu, Giryama e dei leggendari Masai, coi loro mantelli rossi e la lancia in mano, il potere politico è conteso tra Kikuyu e Luo. I Kikuyu provengono dal monte Kenya al nord e sono da sempre al potere: più ricchi, numerosi e proprietari terrieri. Kenyatta è un Kikuyu. I Luo provengono dal sud e dalle sponde del lago Vittoria, più poveri e storicamente relegati nei campi o negli slums, le favelas africane. Odinga è un Luo, e non a caso delle sue origini fa un vanto.

In questa sua ennesima campagna elettorale, ha cercato di superare il tribalismo e di formare un’alleanza trasversale. Kenyatta è rimasto invece ancorato al suo partito, il Jubilee, composto da soli Kikuyu. E giovedì i Kikuyu stanno votando, i Luo no. Odinga in una grande manifestazione ha invitato i suoi sostenitori a disertare e boicottare il voto, ma a non precipitare al contempo nella violenza etnica. Si registrano intanto proteste e manifestazioni in diverse città del paese, toccando i picchi di violenza a Kisumu, alle faldo del lago Vittoria. Non a caso, dove i Luo sono maggioranza. Il Kenya è diviso. Alle preghiere di Kenyatta e di Odinga si sono unite quelle del Papa, che in settimana da Roma ha dedicato un’intera omelia al Kenya.

E gioverdì Nairobi era una metropoli silenziosa e vuota. Gli occidentali che hanno potuto, sono già volati via. I negozi sono chiusi. La tensione ad ogni angolo della città è palpabile. L’esercito e la polizia sono ad ogni angolo, per impedire manifestazioni. Nei giorni scorsi, per circolare in città le auto erano costrette a zigzagare tra manifestazioni improvvisate o lanci di pietre e lacrimogeni.

Il Kenya è in stallo e non è uno stato qualsiasi: ma la chiave dell’equilibrio economico e geopolitico nell’East Africa. Non a caso Kenyatta vanta il sostegno dell’occidente, anche se non dichiarato: un ribaltone politico e istituzionale non è certo attraente, oggi. In più, Kenyatta ha già mostrato di voler affrontare il terrorismo islamico di Al-Shabaab schierando stabilmente l’esercito al confine con la Somalia, e anche per questo è considerato un alleato prezioso. Ma la crisi ha intanto paralizzato l’economia, ora del tutto stagnante, e bloccato i finora ingenti investimenti occidentali. E se per i kenioti “whatever it happens, it happens”, per gli osservatori internazionali non è esattamente così.

Kenya al voto fra tensioni e lotte interne

Quello che colpisce dei kenioti è la mancanza di qualsiasi preoccupazione per il futuro. “Wathever happens, happens” commentano sempre, vivendo il presente e senza pensare al domani. Hakuna Matata, in swahili. Anche nel pieno della più grande crisi politica e costituzionale della loro storia. Il Kenya ha celebrato la sua seconda tornata elettorale, dopo lo storico pronunciamento della Corte suprema…

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