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L’incontro tra Marco Minniti e Khalifa Haftar avvenuto nei giorni scorsi a Bengasi ha definitivamente confermato che il ministro dell’Interno è ormai una sorta di “deus ex machina” del governo per tutte le questioni attinenti la sicurezza e l’intelligence anche quando queste si accavallano con la politica estera. Nelle settimane scorse il generale Haftar aveva incontrato i ministri degli Esteri di Gran Bretagna e Francia, mentre stavolta non ha incontrato Angelino Alfano. Abituato ad avere contatti con i vertici dell’Aise che nei mesi scorsi, forse, hanno dovuto tranquillizzarlo spesso quando si lamentava di essere ignorato a vantaggio del governo di Tripoli, l’uomo forte di Tobruk ha avuto il primo incontro ravvicinato con il politico che conosce l’intelligence come le sue tasche occupandosene da decenni, avendone avuto la delega nei governi Letta e Renzi e mantenendo contatti quotidiani anche ora, pur se formalmente la delega è rimasta nelle mani di Paolo Gentiloni.

È scontato che anche con Haftar il discorso abbia riguardato l’indispensabile controllo dei confini, e quindi dei flussi che arrivano dal Centro Africa, la necessità di trovare in qualche modo un accordo con Tripoli per una gestione il più possibile unitaria della Libia e gli sforzi italiani ed europei per garantire alternative economiche a chi oggi vive sul traffico di esseri umani. Secondo alcuni media libici, l’incontro sarebbe avvenuto dopo quello avuto da Minniti ad Algeri il 4 settembre mattina con il premier, il ministro dell’Interno e quello degli Esteri nel quale è stato deciso di stipulare un nuovo patto bilaterale sulla sicurezza sia sul fronte dell’immigrazione (quasi 900 sbarchi in Sardegna dalle coste algerine) sia su quello del terrorismo. Anche Algeri, che sta per riaprire l’ambasciata a Tripoli, è naturalmente coinvolta nei contatti diplomatici per risolvere la crisi libica.

Pur cercando di tenere sempre distinti i temi, nei dibattiti pubblici Minniti ha ricordato il rischio terrorismo. Per restare solo alle cronache degli ultimi giorni, la procura di Genova ha indagato cinque persone (tre libici, un tunisino e un siriano) per terrorismo internazionale accusandole di aver avuto contatti con finanziatori dell’Isis; la polizia spagnola ha smantellato una cellula jihadista, con basi nell’enclave di Melilla e in Marocco, che stava per compiere attentati; alla fine di agosto la Turchia ha reso noto di aver fermato in un anno 648 militanti dell’Isis e di aver espulso 940 sospetti foreign fighters. Il tema dei combattenti è stato uno di quelli discussi da Minniti in Algeria e in Tunisia: si sa che in Siria e in Iraq hanno combattuto tra i 25mila e i 30mila foreign fighters, di cui 3mila tunisini e 5mila europei, e quindi il controllo delle frontiere diventa fondamentale per fermare chi dovesse tornare dopo le sconfitte di Mosul e di Raqqa.

Il codice per le Ong, l’impegno della Guardia costiera libica, milizie che sembrano essersi convertite a combattere i trafficanti e forse i primi interventi dei sindaci del Sud hanno ridotto moltissimo gli arrivi: meno 18,5 per cento rispetto all’anno scorso, ma soprattutto a luglio sono stati il 52 per cento in meno rispetto allo stesso mese del 2016, ad agosto l’82 per cento in meno e nei primi sei giorni di settembre il calo rispetto agli stessi giorni dell’anno scorso è arrivato al 95 per cento. “Riduzione significativa, ma è presto per dire che il calo è strutturale” si è affrettato a commentare Minniti. Non dev’essere facile per uno cresciuto nel Pci essere definito “sbirro” come ha fatto Gino Strada: per il fondatore di Emergency far finire donne, uomini e bambini nelle carceri libiche “è una cosa compatibile con i suoi valori e si sente orgoglioso di quello che fa”. E’ questo scontro culturale che sta spaccando sempre di più la sinistra, ben consapevole che le scelte dello “sbirro” sposteranno voti.

Se il trend resterà più o meno questo, nell’immediato futuro la questione immigrazione riguarderà soprattutto l’accoglienza diffusa nei Comuni (moltissimi dei quali sono contrari) e i tentativi di aumentare l’integrazione, unico sistema secondo il ministro dell’Interno e il capo della Polizia, Franco Gabrielli, per evitare la nascita di sacche di radicalizzazione. Nelle prossime settimane, dunque, i temi saranno tre: la ricollocazione in Europa delle quote di migranti da Italia e Grecia; la discussione sullo Ius soli; il regolamento che il Viminale sta studiando per favorire l’integrazione. La Corte di giustizia europea ha respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contrarie a ospitare stranieri. Lo scontro sarà duro ed è probabile che l’Ue adotterà sanzioni economiche contro quei Paesi che insistono nel rifiutare la redistribuzione anche di fronte a una sentenza. Ma se in Italia tutti sono d’accordo sullo spostare un po’ di immigrati altrove, sono sempre meno quelli favorevoli allo Ius soli. Nonostante recenti e ripetute posizioni a sostegno, da Dario Franceschini allo stesso Minniti, il Pd sta facendo i conti con la percezione negativa della maggioranza degli italiani su un tema spinoso e ogni caso di cronaca che coinvolge immigrati (vedi gli stupri di Rimini) non fa che allontanare quella legge.

Entro metà settembre, infine, il ministero dell’Interno varerà il regolamento per i richiedenti asilo che dovranno imparare l’italiano, rispettare i nostri valori (come ha stabilità recentemente la Cassazione), seguire corsi di formazione per un inserimento nel mondo del lavoro. Per quel che si sa finora, tutto ciò dovrebbe riempire il tempo che intercorre tra la richiesta e la concessione dell’asilo. Bisognerà capire meglio se gli obblighi permarranno anche durante la regolare permanenza in Italia e se riguarderanno anche gli altri tipi di protezione, umanitaria e sussidiaria, così come quali saranno le sanzioni per chi dovesse rifiutarsi. Poi resterà l’altro grande problema: tutti quelli che resteranno in Italia pur non avendo diritto alla protezione.

Come si districa Minniti fra Libia, migranti, Ong e Ius soli

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