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Per comprendere le implicazioni del congresso nazionale del Partito comunista cinese (Pcc) svoltosi a ottobre a Pechino può giovare un esercizio di immedesimazione: se in Italia vi fosse un partito con poteri paragonabili a quelli di cui dispone il Pcc in Cina, quali effetti avrebbe un suo congresso? In uno scenario del genere gli italiani vedrebbero avvicendarsi: il presidente della Repubblica, i presidenti delle Camere, il presidente del Consiglio, ministri e sottosegretari, i vertici delle Forze armate, i giudici della Corte costituzionale, il governatore della Banca d’Italia, i presidenti delle Regioni, i sindaci dei maggiori capoluoghi, i vertici delle forze dell’ordine e della Pa, i direttori del Corriere della Sera e di Repubblica, il consiglio di amministrazione della Rai, i rettori delle principali università, i leader sindacali e gli amministratori delegati di imprese come Banca Intesa, Unicredit, Cassa depositi e Prestiti, Exor, Enel, Eni, Generali, Trenitalia, Leonardo, Ferrero, Luxottica. È di questa portata, mutatis mutandis, il controllo che il Pcc esercita, in via esclusiva, sulla seconda economia mondiale.

Il congresso nazionale del Pcc è il momento culminante della vita politica in Cina: con l’iscrizione del “Pensiero di Mao Zedong” nello statuto del Pcc, nel 1945 il marxismo-leninismo venne ufficialmente sinizzato e si affermò il primato di Mao, unico leader cinese a godere dell’autorevolezza derivante dall’avere il proprio contributo dottrinale eretto a ideologia-guida del partito mentre era ancora nel pieno della propria carriera politica – almeno fino al 2017. Il recente 19simo congresso, infatti, con una scelta che appunto non ha precedenti negli ultimi settanta anni, ha riconosciuto a Xi Jinping e al suo “Pensiero” una statura analoga, facendone la guida ideologica per l’azione del Pcc quando Xi è allo zenit del potere.

Il parallelo Mao-Xi ha catturato l’attenzione di molti, ma vi è una fondamentale differenza tra il vate dell’utopico paradiso comunista cinese e il pragmatico interprete del nuovo sogno di grandezza nazionale cinese. Mao puntava a trasformare la Cina secondo una specifica declinazione di quella che restava un’ideologia irriducibilmente contrapposta al modello capitalistico e liberal-democratico proprio dell’occidente. Soprattutto, il Grande timoniere fu sempre ambivalente rispetto all’inevitabile tendenza all’istituzionalizzazione del comunismo: la Rivoluzione culturale (1966-1976) mostra come Mao fosse disposto a minare le fondamenta stesse del partito pur di consolidare il proprio potere personale, ma anche per purificare il fervore rivoluzionario dei suoi quadri.

Xi Jinping si pone su tutt’altra traiettoria: è semmai erede di Deng Xiaoping e il suo “Pensiero del socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era” si presenta come un aggiornamento della “Teoria di Deng”. Accelerando un’operazione pluridecennale di sottile eugenetica identitaria, Xi guida una Cina che attinge selettivamente allo strumentario istituzionale e tecnologico dell’occidente al servizio di un nuovo sincretismo: un’agenda di modernizzazione autoritaria originalmente cinese. In questa prospettiva, il partito non costituisce più un possibile fattore di contenimento del leader – come a tratti fu per Mao – bensì lo strumento per eccellenza attraverso cui il rinascimento della nazione cinese può essere realizzato.

Il Rapporto politico presentato da Xi agli oltre 2mila delegati al 19simo congresso è eloquente: tra i 14 principi che stanno alla base del “Pensiero di Xi”, 10 sono dedicati al miglioramento della capacità di governance del Pcc. Non solo: il neo-confermato Segretario generale ha anche annunciato la nuova contraddizione esistenziale con cui la Cina deve confrontarsi: la dialettica tra una società del benessere (ma anche, in filigrana, bisognosa di apertura) e gli squilibri nel sistema economico. L’ambizione dichiarata, però, non è più soltanto di trovare la quadratura socio-istituzionale di questo cerchio dentro la Cina, ma farlo enucleando una “saggezza cinese” da proporre come fonte di ispirazione ad altre società per affrontare le proprie esigenze di sviluppo governato.

Una macchina di partito efficace, riforme finalizzate al potenziamento della competitività dell’economia cinese (più o meno rispondenti ai principi del libero mercato) e un apparato teorico che integri le energie della società cinese e del partito-Stato secondo un modello flessibile e riconosciuto come legittimo e attraente: sono questi gli assi portanti del “socialismo cinese per la nuova era”. Un autoritarismo tecnocratico impegnato in un progetto di ricostruzione di un Cina ricca, forte e con orizzonti globali, che – se non necessariamente contrapposta all’occidente – certamente ne è di contrappunto.

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