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Secondo un sondaggio Demos (la Repubblica di oggi), quasi la metà dei nostri concittadini -soprattutto giovani- è preoccupata per la recrudescenza degli atti violenti di stampo fascista. Nel mirino, in primis formazioni come Forza Nuova e CasaPound, in dura competizione tra loro per conquistarsi un posto al sole nell’area del sovversivismo di destra. Questa è la buona notizia (si fa per dire). Almeno per chi scrive, la notizia cattiva è invece il perdurante silenzio della grande borghesia italiana (basta leggere alcuni editoriali del suo giornale di riferimento) su un punto centrale del programma di quel partito -travestito da movimento- che oggi è accreditato del consenso maggioritario nel Paese.

Che una parte della classe dirigente domestica manifesti un “affettuoso” neutralismo nei confronti dello squadrismo verbale dei Cinquestelle non deve tuttavia sorprendere. La storia non si ripete, si dice. È vero per gli eventi. Ma non è vero per gli stati d’animo, gli umori, le emozioni con cui gli eventi sono vissuti. In questo senso, ci troviamo di fronte a un abbaglio che ha un illustre quanto drammatico precedente storico.

Fino al 1924 l’élite liberale sosteneva che il fascismo era un fenomeno barbaro ma utile, perché reagiva alle spinte socialcomuniste dell’epoca. Ne sottovalutò la carica eversiva, e solo dopo il delitto Matteotti e la soppressione della libertà di stampa Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Luigi Albertini e Giovanni Giolitti se ne staccarono. Ma ancora pochi mesi prima, il 27 ottobre 1923, in un’intervista al Giornale d’Italia intitolata “Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo”, lo stesso Croce negava l’esistenza di differenze sostanziali fra i due paradigmi, liberale e fascista.

E lo faceva sulla base della concezione secondo cui le forme politiche sono astrazioni, le quali coprono la costante e concreta realtà delle minoranze governanti in ragione della maggiore “forza” che esse riescono a dispiegare. Il fascismo veniva dunque giustificato in quanto movimento privo di alternative, unico soggetto capace di mantenere un governo, superando la “paralisi parlamentare del 1922”. Era cioè il “soggetto che energicamente vince la gara liberale con gli altri soggetti in competizione”. Purtroppo, allora non aveva previsto l’eventualità della soppressione della gara stessa.

Ebbene, un errore analogo commettono oggi quegli ambienti intellettuali e accademici che sorvolano sulla carica eversiva che ha la richiesta di abolire il vincolo di mandato sancito nell’articolo 67 della Carta, che per Beppe Grillo “consente la libertà più assoluta ai parlamentari che possono fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare”. Ora, forse ero distratto, ma fin qui non ho ascoltato voci autorevoli del costituzionalismo democratico contestare apertamente, e con la necessaria fermezza, questo attacco alla legalità repubblicana, espressione di una cultura politica dominata dal risentimento e dalla sfiducia nei confronti del regime parlamentare.

Forse qualcuno ricorda queste parole: “Care amiche e cari amici del Movimento 5 Stelle, lo straordinario risultato del voto amministrativo attribuisce al vostro Movimento una grande responsabilità: dare un contributo decisivo alla principale battaglia democratica che aspetta il Paese, cioè il referendum costituzionale […]”. È l’incipit dell’appello lanciato nel giugno 2016  dal consiglio di presidenza di “Libertà e Giustizia” (Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky, Nadia Urbinati e altri) per costruire, nelle piazze e nella rete, “un’opposizione popolare ad una revisione costituzionale divisiva e imposta da un parlamento delegittimato”. E, per affermare le ragioni del No, “il ruolo del Movimento appare cruciale”.

Già allora quelli del “guai a chi tocca la Costituzione” facevano finta di non sapere, per ragioni di pura convenienza di schieramento, che i pentastellati erano contro il principio del libero mandato voluto dai padri costituenti. Ma che importa? Infatti, per Zagrebelsky e soci è “vitale che il primo partito d’Italia sappia guardare all’interesse della Repubblica: mostrando senso di responsabilità, lungimiranza e amore per le istituzioni e il bene comune dei cittadini”. Tutto chiaro, no?

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