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Ci sono ancora tante cose che non conosciamo degli anni di piombo. Rapporti interni e internazionali, interessi più o meno leciti, indagini che a distanza di tempo rivelano lati oscuri. Dal lavoro della commissione d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni (Pd), stanno emergendo aspetti e anche documenti che nei precedenti quarant’anni erano rimasti nascosti e che oggi aiutano a delineare il quadro di quella vicenda insieme con passaggi fondamentali nella storia del terrorismo rosso. La terza relazione che sarà presentata prima della fine dell’anno sarà un altro punto fermo in questa operazione di ricostruzione storica.

IL BAR OLIVETTI E IL TRAFFICO D’ARMI

Da quando si è insediata la commissione si è molto parlato del bar Olivetti, il locale situato al piano terra del condominio all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa dove i brigatisti rapirono lo statista Dc, ed è curioso che ci siano testimonianze discordanti sul fatto se fosse aperto o meno quella mattina del 16 marzo 1978. C’è invece una certezza già esposta in termini quasi definitivi nella relazione dello scorso dicembre: il bar era in realtà la base di un traffico d’armi nazionale e internazionale a favore di terroristi di vario colore, gruppi stranieri e criminalità organizzata e la sua chiusura “pilotata” dei mesi precedenti, per un fallimento che già all’epoca risultò strano, doveva favorire il blitz delle Br. Se il bar fosse stato aperto, alle 9 quell’incrocio sarebbe stato affollato e il sequestro di Moro non sarebbe stato possibile, così come l’alternativa di un rapimento all’uscita della chiesa di Santa Chiara nel quartiere di Vigna Clara presentava troppe difficoltà logistiche. La presenza del boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta, confermata dalla perizia del Ris dei Carabinieri su una fotografia, sarebbe giustificata proprio dall’attività criminale che si svolgeva in quel locale anche dopo la chiusura dell’attività commerciale. I depistaggi di cui beneficiò Tullio Olivetti, titolare del bar, sono emersi da tanti indizi: il traffico d’armi all’epoca era una gallina dalle uova d’oro e probabilmente qualche investigatore chiudeva un occhio in cambio di informazioni su altre attività criminali o di qualcos’altro.

IL LODO MORO E L’ADDESTRAMENTO DEI TERRORISTI

Altre certezze sono arrivate il 26 giugno dalla testimonianza di Bassam Abu Sharif, uno dei cinque comandanti militari del Fronte popolare per la liberazione della Palestina negli anni Settanta. Innanzitutto la conferma dell’esistenza del Lodo Moro, l’accordo firmato da George Habbash a nome del Fplp e consegnato al colonnello Stefano Giovannone (capocentro del Sismi a Beirut e uomo di Moro) perché lo consegnasse a Roma, in base al quale si garantiva che non sarebbero stati compiuti attentati in Italia. Abu Sharif ha anche promesso di consegnare copia di quel documento, se la troverà, mentre i commissari escludono che possa fornire i nomi dei brigatisti che Abu Sharif considera infiltrati degli americani. Se alcuni erano effettivamente degli infiltrati, è considerata più realistica l’ipotesi che fossero israeliani che certo non vedevano bene i buoni rapporti dell’Italia con i palestinesi. L’altra notizia che ha dato il leader palestinese riguarda la conferma che italiani si addestravano nei loro campi.

I RETROSCENA SUL COVO DI VIA FRACCHIA A GENOVA

Indagare su Moro significa anche ricostruire il mondo brigatista e scoprire curiosi intrecci investigativi. A questo proposito l’audizione di Luigi Carli, oggi in pensione e già sostituto procuratore della Repubblica a Genova, il 19 giugno fornì notizie smentite da altri magistrati e che ora la commissione intende approfondire. La notizia più importante fu che il famoso blitz del 28 marzo 1980 nel covo brigatista genovese di via Fracchia fatto dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ordinato e diretto dalla magistratura torinese e non da quella genovese. Carli, che fu incaricato di occuparsi delle Br genovesi dopo quella data, affermò di aver saputo del ritrovamento delle carte di Moro solo nel corso di una riunione con i magistrati torinesi Gian Carlo Caselli, Marcello Maddalena e Maurizio Laudi e il magistrato romano Rosario Priore. Dal canto suo, Carli doveva occuparsi soltanto dell’irruzione dei carabinieri. C’è anche un particolare, sottolineato da Fioroni nell’audizione, che dimostra come non sia stata la procura di Genova a decidere quell’operazione: il fatto che il sostituto procuratore genovese di turno venne svegliato dai Carabinieri circa alle 6.30 per comunicargli quanto stava avvenendo. Se l’iniziativa fosse stata genovese, sarebbe stato logico che i magistrati inquirenti fossero sul posto con l’Arma.

IL RUOLO DEI MAGISTRATI DI TORINO

Dunque, a distanza di anni risultano versioni radicalmente opposte su quello che avvenne quel giorno, e non un giorno qualunque visto il materiale rinvenuto nel covo. Subito dopo l’audizione, Caselli dichiarò all’Ansa che non gli “risulta niente di niente” della versione di Carli e che “è fuori da ogni logica che la magistratura torinese possa aver deciso l’irruzione nel covo Br di via Fracchia” o possa essersene occupata perché “la collaborazione di Patrizio Peci coi magistrati di Torino ebbe inizio solo il 1° aprile 1980”, cioè quattro giorni dopo il blitz. Fatto sta che la commissione ha incaricato uno dei consulenti di ascoltare sia Caselli che Maddalena per chiarire, oltre ad avviare una ricerca negli uffici giudiziari torinesi per individuare negli archivi le eventuali carte della procura o dell’allora ufficio istruzione.

Cosa (non) si sa del caso Aldo Moro secondo la commissione Fioroni

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