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Speriamo solo che il governo tenga duro sulla proposta di Matteo Renzi, e che Pier Carlo Padoan, principale delegato alla trattativa, non si faccia intimorire dalle inevitabili levate di scudo. Ma il Fiscal compact non va costituzionalizzato. Ameno non subito. Non si tratta di minacciare chicchessia. Né di fare la voce grossa, battendo i pugni sul tavolo. Ma di rispettare quanto stabilisce l’articolo 16 del Trattato istitutivo. Quello siglato a Bruxelles il 2 marzo 2012 e successivamente approvato, con legge dal Parlamento italiano, nell’identico testo.

Stabilisce l’articolo richiamato: “Al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea.” Il suo significato è inequivocabile, sia dal punto di vista letterale che sistematico. Prima di procedere oltre occorre una “valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione“. E non il prendere o lasciare che sarà proposto dai sacerdoti dell’austerity.

Ha dato buoni risultati? Soprattutto è stato rispettato dai principali Paesi dell’Eurozona? Sembrerebbe di no: almeno a giudicare dai dati sull’andamento del deficit di bilancio e del rapporto debito – Pil. Dal 2012 l’indebitamento netto dell’Eurozona, esclusa l’Italia, è stato superiore ai vincoli previsti dal Trattato di Maastricht: pari al 3 per cento del Pil. Solo nel 2014 e nel 2015 quella frontiera è stata rispettata. L’Italia ha fatto molto meglio nel 2012 (2,9 per cento contro una media del 3,8) e nel 2014 (2,7 contro il 3 per cento). E’ invece andata peggio nel 2014 e nel 2015, con un leggero scarto di 0,5 punti nel primo anno e 0,6 nel secondo. Nel frattempo tuttavia l’ondata di migranti – il cui onere resta quasi completamente a carico del bilancio italiano – contribuiva, in qualche modo, a fare la differenza.

Stessa dinamica, nel caso del debito pubblico. Secondo il Trattato doveva esserci una progressiva diminuzione del suo rapporto con il Pil. In tutta l’Eurozona, esclusa l’Italia, si è passati dall’83,3 per cento del 2012 all’85 per cento nel 2014, per poi ritornare al punto di partenza nel 2015, con una percentuale pari all’83,1 per cento. Purtroppo in Italia le cose sono andate molto peggio: si è passati dal 123,3 del 2012 al 132,3 del 2015. A determinare questa relativa debacle hanno contribuito due distinti fattori: il basso tasso di crescita dell’economia reale e la caduta dei prezzi. In definitiva la spinta deflazionistica imposta dalle politiche di austerità, che Mario Draghi, con il suo quantitative easing ha potuto contrastare, ma non debellare.

Di fronte ad un bilancio così negativo, far finta di nulla sarebbe nascondere la testa sotto la sabbia. Occorre pertanto un gesto di responsabilità, più che di coraggio, per dire che quei cinque anni trascorsi sono stati vissuti pericolosamente da quasi tutti i Paesi europei: esclusa la Germania e qualche satellite nord europeo. Naturalmente la crisi, determinata dal fallimento della Lehman Brothers, non ha aiutato. E’ stata la crisi più dura di questo secolo: secondo le concordi valutazioni di Draghi e Alan Greenspan. Ma proprio per questa ragione, la fase di sperimentazione non può che essere prorogata. Il problema è capire come quelle regole sono destinate ad operare in un periodo di normalità e non in una fase in cui imperativo di alcuni Paesi europei è innanzitutto quello di recuperare i livelli di reddito del 2007.

Anche in questo caso il problema ha una portata che non si limita al solo caso italiano: quello più indietro rispetto al perseguimento di questo obiettivo. Non si dimentichi le recenti valutazioni del governatore della Banca d’Italia, secondo il quale, agli attuali tassi di sviluppo, quel traguardo potrà essere raggiunto solo a metà del prossimo decennio. Una specie di ossimoro: considerando il livello di disoccupazione soprattutto giovanile. Paesi come la Francia o la Spagna hanno avuto una perfomance migliore solo perché se ne sono infischiati di quelle regole capestro ed hanno lasciato andare il loro deficit di bilancio ben oltre le colonne d’Ercole di Maastricht. Senza peraltro incorrere nella sanzione dei mercati. Che hanno accettato di finanziare il loro debito (in più forte crescita relativa) ad un tasso inferiore a quello italiano.

Non sappiamo se Matteo Renzi, prima di pronunciarsi con una schiettezza inusitata, a favore di una proroga di cinque anni della fase di sperimentazione del Trattato abbia avuto davanti questi dati. E’ comunque difficile dargli torto, quando propone di portare il deficit di bilancio al 2,9 per cento: per utilizzare il margine relativo per politiche di sviluppo (investimenti e riduzione del carico fiscale). Posizione, per la verità, non esente da rischi, viste le incertezze del quadro internazionale. Ma può essere un rischio calcolato.

Se intorno a questa proposta si coagulerà uno schieramento politico in grado di imporre, con il massimo rigore, che da quei propositi non si debordi con il solito assalto alla diligenza. Che da sempre ha inquinato la finanza pubblica italiana.

Francia

Perché il Fiscal Compact non va costituzionalizzato subito

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