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Non era un risultato affatto scontato, considerato che non c’è stato un dibattito antagonista proprio delle campagne elettorali e referendarie. Se si esclude l’amico Dino Bertocco, “popolare” del Pd, che ha, quotidianamente, contestato motivazioni ed obiettivi del referendum veneto, l’ampio schieramento politico culturale a favore del Sì poteva indurre gli elettori veneti a dare per scontato l’esito. Fortunatamente, anche se non privo di rischi, nella nostra Regione era stato previsto il raggiungimento del quorum oltre 50% più uno degli elettori votanti, quale condizione per la validità dell’esito referendario.

Recatomi al seggio alle 8 del mattino, non ero sicuro che avremmo raggiunto quel quorum e, invece, i veneti hanno risposto alla grande, sfiorando quasi il 60% della base elettorale e con un’adesione plebiscitaria alla richiesta di maggiore autonomia. A questo risultato abbiamo concorso significativamente anche noi Popolari e democratico cristiani che, coerenti con la nostra migliore cultura autonomistica, sin dal Febbraio 2016 ci eravamo schierati a sostegno di una macroregione triveneta che assumesse la centralità e il valore aggiunto di Venezia.

La nostra proposta non intendeva e non intende ridurre il grado di autonomia conquistato dalle consorelle realtà regionali friulane e trentino-altoatesine, ma, semmai, di aumentare quello ora garantito al Veneto come regione a statuto ordinario. E lo facciamo indicando in Venezia e nella migliore tradizione storico politica della Repubblica Serenissima il punto di riferimento centrale della nostra proposta. Ieri i veneti, come felicemente ha ricordato il Presidente Zaia, hanno risposto alla grande dimostrando che: “Non bisogna voltare le spalle alla mamma” e che la nostra mamma è l’autonomia, nel solco della migliore tradizione politica ispirata ai valori della sussidiarietà.

Nessuna velleità scissionistica, ma il riconoscimento di una specifica autonomia nel quadro di ciò che prevede la nostra Costituzione repubblicana.

Che esista una questione settentrionale, lo ha ben descritto l’amico Achille L. Colombo Clerici in un suo recente saggio,  che ripropone quanto da lui esposto in una conferenza tenuta a Zurigo all’Istituto svizzero per i rapporti culturali ed economici  con l’Italia nel giugno 2008.

In estrema sintesi Colombo Clerici fa presente quanto segue.

Se la questione meridionale italiana da quasi un secolo è al centro del dibattito storiografico e politico nel nostro Paese, scarsa attenzione viene data alla questione lombarda che si inserisce, più in generale, nella questione settentrionale, il cui confine è tracciato dal perimetro delle cosiddette regioni a residuo fiscale negativo: cioè di quelle regioni che allo Stato danno in tasse più di quanto ricevono in servizi.

Si delinea un’area geografica comprendente le regioni del Nord, un’area entro la quale si riscontra una certa omogeneità storico cultural-sociale ed economica. Anche se dobbiamo dire che, grazie a Milano, la Lombardia è la Regione che più assomiglia ad uno stato autonomo, nel quale esiste in modo inequivocabile un vero riconoscibile polo di potere socio-economico-amministrativo a reggerne la vita. La questione settentrionale potrebbe oggi, per grandi linee, affacciarsi nei termini problematici del compito e della responsabilità, maturati sul piano storico, delle Regioni del Nord di tenere agganciato il Paese al mondo internazionale.

Mentre le risorse per consentire questo compito non sono per niente definite. Anzi, non se ne parla nemmeno. L’assistenzialismo centralistico verso le regioni del Sud ha dato luogo a ingenti trasferimenti finanziari alle famiglie senza la contestuale creazione di nuovi posti di lavoro. Si è in tal modo sviluppato un modello di società dei consumi senza una corrispondente produzione.  Lo Stato Italiano ha sottratto ingenti risorse finanziarie agli investimenti in infrastrutture di servizio, tanto al Nord, quanto al Sud; dove peraltro gli investimenti realizzati non hanno dato i risultati ipotizzati.

La soluzione? Alcuni sostengono un’idea più avanzata sul piano del “federalismo”, soprattutto in campo fiscale; altri più sfumatamente parlano di “regionalismo”, in aderenza sostanzialmente all’idea di una maggiore autonomia dell’ente locale. Ma poi inevitabilmente nelle risposte degli uni e degli altri emergono tutte le tematiche del dibattito generale: dai principi di interdipendenza, di sussidiarietà, di solidarietà, al policentrismo ed al cosmopolitismo. Il tutto inquadrato in un sistema che sia in grado di conciliare le esigenze di autogoverno–partecipazione locale, con la salvaguardia del principio di unità-solidarietà nazionale.

Questi sono i nodi che, dopo la conferma plebiscitaria alla richiesta di autonomia veneta, il consiglio regionale del Veneto dovrà tentare di sciogliere. Zaia ha garantito che, già da oggi, la Giunta adotterà un disegno di legge da portare all’approvazione del consiglio regionale; una piattaforma per il confronto con il governo di Roma per dare pratica attuazione all’autonomia veneta che guarda a quella garantita alle Regioni confinanti del Friuli V. Giulia e del Trentino Alto Adige.

Ci auguriamo che il governo Gentiloni non sia sordo e ondivago come lo è stato il Pd, suo principale sostenitore, in questa vicenda referendaria. Se, come è assai prevedibile, la nostra proposta non potrà essere discussa in questa fase terminale di un’equivoca legislatura, sarà il prossimo governo a dover sciogliere i nodi aperti con la locomotiva italiana lombardo-veneta, riscoprendo l’opportunità di un nuovo assetto finalmente federale del Paese, con cinque o sei macroregioni  e una guida autorevole e forte centrale, come il compianto prof Miglio, profeta inascoltato, autorevolmente auspicava.

regionalismo, LUCA ZAIA POLITICO LEGA

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