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Mentre il presidente americano Donald Trump è impegnato nel suo primo viaggio internazionale, il Washington Post esce con un altro scoop rovinoso. Trump avrebbe chiesto a due alti dirigenti dell’Intelligence Community americana di negare qualsiasi possibilità sui contatti tra il suo team elettorale e funzionari russi, ossia di erodere dall’interno l’inchiesta Russiagate.

IL NUOVO SCOOP DEL WAPO

Il WaPo ha raccolto la testimonianza anonima, ma evidentemente affidabile, di due attuali funzionari dei servizi segreti americani: è evidente che il giornale – e in generale, i giornali – abbia ormai scoperto la falla giusta da cui tirare fuori informazioni scottanti sulle azioni di Trump intorno all’inchiesta; è altrettanto evidente che, senza scomodare ricostruzioni fantascientifiche che tirano in ballo il cosiddetto deep state e amenità pseudo-complottiste, la Comunità di intelligence americana abbia avviato una guerra sotto traccia contro l’amministrazione e stia giocando le proprie carte attraverso spifferate micidiali ai media.

I PERSONAGGI COINVOLTI

Secondo quest’ultimo scoop Trump avrebbe chiesto, separatamente, la collaborazione di Dan Coats, il Director della National Intelligence (il coordinatore di tutte le 17 agenzie di servizi americane) e quella dell’ammiraglio Michael Rogers, capo della National Security Agency (più nota come NSA). Entrambi avrebbero glissato sulla richiesta del presidente, che cercava una sponda per degradare l’indagine che il controspionaggio dell’Fbi sta conducendo. È evidente che messa così la situazione ha un’evocazione nixoniana: Trump trama per mettersi d’intralcio a un’indagine federale? Tanto bastò per far dimettere Richard Nixon. Le richieste sarebbero infatti arrivate entrambe dopo che l’ex direttore del Bureau, James Comey, aveva pubblicamente ammesso in un’audizione congressuale che il Russiagate era oggetto di un’inchiesta federale.

UNA STORIA GIÀ LETTA

L’avance presidenziale verso Coats e Rogers è del tutto analoga a quella fatta proprio a Comey durante una conversazione nello Studio Ovale, quando Trump chiese al capo dell’Fbi di smetterla di indagare su Michael Flynn, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale finito sotto indagine federale per sospette attività pro-Turchia connesse a un sostanzioso pagamento come lobbista ‘non-dichiarato’ e altri pagamenti sospetti ricevuti dalla Russia. L’inchiesta personale su Flynn si sovrappone a quella sul Russiagate, basta pensare che l’ex generale si è dimesso da APNSA perché aveva mentito ai Federali e al vice presidente sui suoi contatti con l’ambasciatore russo (lunedì Flynn ha fatto sapere di appellarsi al Quinto emendamento per rifiutare un mandato di comparizione emesso dalla Commissione Intelligence del Senato che sta separatamente indagando sul Russiagate). La volontà di insistere sull’inchiesta Russiagate è ormai palese che è costata il posto a Comey, e questo è una vicenda da tenere a mente più avanti, quando si parlerà dei perché di tutte queste informazioni passate alla stampa.

LO SCIVOLONE ISRAELIANO

Lunedì Trump ha fatto un’altra uscita mediatica scomposta. Appena poco dopo essere atterrato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, dove ad attenderlo ha trovato il presidente e il primo ministro israeliani (la consorte di quest’ultimo ha consolato Melania Trump dicendole che i giornali sono odiati tutti, mentre tutti “ci amano”) ha chiesto l’attenzione dei cronisti presenti ed è uscito, senza che nessuno glielo chiedesse, con un “non ho mai parlato di Israele nello Studio Ovale”. Detto così non è chiaro, ma se si fa mente locale a una settimana fa esatta si ricorderà che sempre il Washington Post raccontò che Trump in un incontro con il ministro degli Esteri e con l’ambasciatore russo aveva spifferato informazioni di intelligence riservate su un piano terroristico dell’IS, che gli Stati Uniti avevano ottenuto da un paese alleato. Il New York Times, in seconda battuta, ottenne dritte che quel paese era Israele, e dunque il quadro era: Trump aveva fatto saltare la copertura su un’operazione segretissima che gli 007 israeliani avevano condiviso con i colleghi americani. Lunedì, con l’excusatio non petita, Trump ha praticamente confermato da solo il secondo pezzo dello scoop – d’altronde il primo, le rivelazioni, lo aveva appurato immediatamente con un tweet in cui si arrogava il diritto di parlare di quel che vuole con chi vuole.

LA VENDETTA DELL’INTELLIGENCE

Ora, mettendo insieme i pezzi, appare più chiaro come mai i giornali sono gonfi di indiscrezioni su questa stramba amministrazione. È ovvio (non giusto) che ci sia una parte di fedelissimi di Comey, malamente cacciato da un ruolo in cui era apprezzato, che la voglia far pagare al presidente. È ovvio (di nuovo, non giusto) che ci siano altri funzionari dell’intelligence che davanti alle pressioni esercitate cercano di svincolarsi per mandare un messaggio di richiesta d’autonomia all’amministrazione (pare che dell’invito fatto a Rogers ci siano dei memo, per esempio). È ovvio (e ancora, non giusto) che davanti alle disattenzioni – o a chissà cos’altro – con cui il presidente maneggia informazioni segrete, gli operativi e i loro colleghi cerchino una strategia difensiva. Già a febbraio facevano sapere ai giornali che Trump veniva tenuto all’oscuro di alcuni dettagli sulle operazioni, perché si temeva potesse farseli sfuggire: il messaggio più soft non è passato, era ora si è arrivati all’artiglieria pesante.

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