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Filippo Fasulo è coordinatore scientifico del Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina (CeSIF) e ricercatore presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Per l’Ispi di recente ha collaborato a un rapporto sul One belt one road, il progetto cinese per ricostruire i fasti dell’antica Via della seta attraverso una mastodontica rete di infrastrutture e investimenti in Eurasia. In questa intervista per Formiche.net spiega le implicazioni dell’Obor per l’Europa e soprattutto per il Medio Oriente.

Fasulo, quali sono i vantaggi e i rischi che l’Obor comporta per l’Unione Europea?

Le opportunità per l’Europa sono di vario tipo. Innanzitutto beneficiare di una spinta sulla creazione di nuove infrastrutture: una maggiore interconnessione con la Cina tramite le reti ferroviarie così come l’implementazione dei porti sarà positiva, anche se difficilmente questo potrà sostituire il trasporto aereo e marittimo.

Perché?

Per ragioni di costi e di carico. Una nave cargo credo possa portare fino a 10.000 container, una carovana ferroviaria fino a 60-70. Inoltre dei treni che partono dalla Cina verso l’Europa, solo uno ogni quattro torna in Cina carico.

E l’Italia che vantaggi ne trae?

Il primo vantaggio è quello di intercettare i flussi di commercio, la costruzione di opere infrastrutturali sul suolo italiano, come il rilancio di alcuni porti. Inoltre la costruzione delle nuove infrastrutture in altri paesi terzi vedrà un’importante collaborazione sino-italiana, come per la costruzione di ferrovie dall’Africa all’Eurasia. L’Italia potrebbe avere interesse ad attirare investimenti cinesi in settori di alta qualità sul territorio italiano, utilizzando la tecnologia e la forza lavoro italiana.

Come cambia la politica estera cinese con l’Obor?

Ci sono due dinamiche su cui si regge l’attuale politica estera cinese. La prima è la globalizzazione, ovvero una maggiore presenza cinese all’estero, che però presenta anche dei rischi, come l’esposizione degli interessi cinesi ad eventuali crisi locali. A queste crisi è legata la seconda, cioè lo sviluppo di nuove politiche di intervento. Nel rapporto dell’Ispi abbiamo tratteggiato alcune possibilità per un intervento cinese all’estero, sempre nel rispetto della retorica del non interventismo e dei cinque principi di coesistenza pacifica. D’altronde su altri fronti, come in Sud Sudan, la Cina sta già sviluppando operazioni di peace-keeping.

Lei crede che la Cina si sostituirà agli Stati Uniti sullo scacchiere mediorientale?

La Cina è ormai il primo importatore di petrolio in Medio Oriente. Si può dire che ormai il costo relativo dell’instabilità nel Medio Oriente sia superiore per i cinesi che per gli americani. Per questo sostituirsi agli Stati Uniti non è nell’interesse cinese. Uno scenario in cui gli americani si sobbarcano i costi della sicurezza e in cui i cinesi continuano a fare affari è senza dubbio il migliore per Pechino.

Quali sono i rapporti diplomatici dei cinesi con il Medio Oriente?

I cinesi da tradizione cercano di mantenere un equilibrio nell’area. La visita di Xi Jinping all’inizio del 2016, quando è andato in Arabia Saudita, in Egitto e in Iran, era stata ritardata di sei mesi perché c’erano forti tensioni fra Iran e Arabia Saudita a causa dello Yemen. La Cina è uno dei pochi paesi che riesce ad avere ottimi rapporti sia con i palestinesi che con gli israeliani, ai quali è legata da forti interessi economici. Oggi però la Cina si trova in difficoltà davanti alla crisi tra i paesi del golfo.

La crisi tra i sauditi e il Qatar quanto influirà sulla nuova Via della seta?

Dipende da come leggiamo il piano dell’Obor. Se si vede solo come il passaggio di un treno fra diversi paesi, allora può comportare un problema. Ma se invece l’Obor, come credo, è un piano di investimenti bilaterali, allora l’impatto è del tutto differente. L’orizzonte di questo piano è veramente di lungo periodo, soffermarci sulle questioni più recenti può indurci a una sbagliata interpretazione.

Si, ma i cinesi come si porranno sulla questione del Qatar?

Difficile immaginare che la Cina possa prendere una posizione forte. Cercherà piuttosto di favorire una riconciliazione. Come ho detto l’Obor non è solo un concetto geografico, il confine dei corridoi economici è solo parziale. I cinesi parlano della Belt&Road Initiative (BRI) anche con la Nuova Zelanda, l’Australia, il Sud Africa e persino con il Sud America.

La presenza dell’Isis nelle zone attraversate dall’Obor preoccupa la Cina?

È un problema rilevante, i cinesi hanno portato avanti la legge anti-terrorismo, che prevede interventi militari all’estero in un quadro di accordo con i paesi ospitanti. Sicuramente il caso dello Xinjiang e dei numerosi foreign fighters in Siria spaventa la Cina. Inoltre il numero dei cinesi all’estero che vengono posti in pericolo è in costante crescita. Solo la settimana scorsa in Pakistan sono stati uccisi due cittadini cinesi nel territorio dove si faranno gli investimenti del cordone sino-pakistano: parliamo di oltre 40 miliardi di dollari.

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