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(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

Più si allunga la campagna elettorale -non quella ormai alla fine per le amministrative con i ballottaggi di domenica prossima, ma quella per le politiche di fine legislatura- più il dibattito politico diventa una maionese. Si spargono veleni, bugie, manovre sotterranee, rivelazioni sospette: tutta roba preferibile, per carità, agli attentati terroristici in Gran Bretagna e in Francia di questa torrida e incipiente estate, ma ugualmente tossica per il disorientamento che crea.

Non si sa, francamente, se ridere o piangere di fronte alla disinvoltura con la quale Massimo D’Alema, per esempio, confessa al Manifesto, di avere trovato troppo “estremismo” e troppe “calunnie” anche nei suoi riguardi nel raduno di domenica al Brancaccio, dove sedeva in prima fila per godersi una delle tante isole della sinistra che vorrebbero costituire l’arcipelago di una riedizione dell’Ulivo o dell’Unione dei tempi di Romano Prodi. Le “calunnie” di cui l’ex presidente del Consiglio si è sentito personalmente colpito sono quelle dell’oratore principale del raduno, che lo ha accusato di avere violato la Costituzione ogni volta che da presidente del Consiglio nel 1999 partecipò in qualche modo alla guerra della Nato nei Balcani, contro la Serbia. La “Cassazione” addirittura –ha assicurato e rivelato D’Alema- lo ha assolto.

Sempre al Brancaccio, il professore e senatore Miguel Gotor, bersaniano doc, ha finto di non prendersela per i fischi che si è guadagnato tentando di coniugare la parola magica “insieme” con la scissione del Pd consumatasi qualche mese fa per iniziativa proprio dei suoi compagni di corrente o di area.

Romano Prodi fa intanto incetta di Vinavil ed altre colle in tutti i negozi della penisola per averne abbastanza da usare nella missione che si è data di rimettere insieme i cocci dei suoi passati governi e far decollare, magari, per Palazzo Chigi la candidatura dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Il quale per prudenza si è tenuto lontano dal Brancaccio, dove ne hanno fischiato lo stesso il none quando qualcuno lo ha citato.

A destra, o al centro, come preferite, lo spettacolo non è migliore. Il senatore fiorentino Denis Verdini, per esempio, si è appena esibito sul Corriere della Sera vantando le sue radici addirittura risorgimentali e mazziniane, al netto naturalmente dei problemi che ha oggi con la giustizia, e tessendo gli elogi del suo amico e corregionale Matteo Renzi, che sarebbe “ancora l’unica speranza di questo Paese”. Ma al tempo stesso gli ha dato praticamente del falso e del doppiogiochista rivelando di essere stato da lui invitato nello scorso mese di dicembre a rimanere fuori dal governo di Paolo Gentiloni per renderlo il più “fragile” possibile, aggredibile politicamente e fisicamente- presumo- come il governo di Enrico Letta rimosso dallo stesso Renzi appena dopo esser diventato segretario del Pd, quasi tre anni e mezzo fa.

“E io l’ho fatto senza problemi”, ha assicurato Verdini parlando dell’astinenza governativa ordinatagli dal suo amico Matteo, ma dimenticando lo spettacolo del tutto diverso -e quindi falso, debbo presumere- offerto da lui e dai suoi amici nei giorni della formazione del Gabinetto Gentiloni, quando i verdiniani minacciavano l’ira di Dio se non avessero avuto uno strapuntino, almeno di sottosegretario.

Potrei continuare, ma non lo faccio per carità di patria, con la minuscola, o di quel poco che ancora resta della politica, sempre con la minuscola.

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