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Mentre l’Italia continua ad essere afflitta dai soliti problemi, mentre gli altri Paesi con cui ci confrontiamo quotidianamente sembrano essere precipitati in una crisi di instabilità a loro sconosciuta. Dovremmo approfittarne.

Londra ha un bel po’ di problemi. Dalla Hard Brexit si sta scivolando verso la Open Brexit, una soluzione alla norvegese, o magari analoga a quella della Svizzera. I punti di debolezza sono tre: la progressiva riduzione dell’intervento pubblico nel campo della istruzione, della sanità e della sicurezza, è resa indispensabile dalla necessità di conciliare gli equilibri fiscali con un assetto di piena occupazione drogato dalla assistenza sociale. Sono sempre più numerosi gli impieghi remunerati ad un livello insufficiente alla sussistenza cui si aggiungono consistenti assegni assistenziali. L’Income Support di base, che vale 57,9 sterline a settimana, viene erogato a tutti coloro che risiedono legalmente, che hanno più di 16 anni e che lavorano meno di 16 ore a settimana. Ne è conseguito un incessante afflusso di immigrazione europea, sprezzantemente definita “trash Europe”, attratta dalla prospettiva della assistenza sociale. Il recente programma elettorale dei Conservatori, col taglio della assistenza domiciliare agli anziani che è stata definito dai detrattori “Dementia Tax”, ha sospinto in alto per i Laburisti.

C’è poi la questione del deficit strutturale della bilancia dei pagamenti britannica, appesantito dall’import di merci dall’Europa: rileva il modello di crescita centrato sui servizi finanziari, con alte remunerazioni nell’area di Londra, cui corrisponde la esplosione dei servizi ancillari a basso salario sostenuti dal welfare pubblico. Sono scelte di lungo periodo, i cui nodi stanno venendo al pettine insieme.

C’è infine il terzo aspetto, quello della governabilità: era dal 1978, infatti, che non si vedeva un governo di coalizione, mentre quelli di minoranza non sono mai durati più pochi mesi, il tempo di tornare alle urne. Ma quest’ultima è una ipotesi che la Premier Theresa May non sembra poter prendere in considerazione dopo il pessimo risultato ottenuto a seguito dell’incauto scioglimento anticipato. La trattativa sulla Brexit metterà alla prova non solo l’inedita alleanza con il Partito Unionista Irlandese, quanto i rapporti con la City, interessata a mantenere ogni privilegio, dal passaporto finanziario europeo al clearing sui derivati in euro.

Parigi si trova alle prese con questioni altrettanto complesse, con la adozione di riforme strutturali sempre rinviate. La elezione di Emmanuel Macron alla Presidenza della Repubblica e la elevatissima astensione al primo turno delle legislative deriva dalla reazione alla pressione fiscale eccezionalmente elevata. È passata dal 49,8% del pil nel 2000 al 53,3% di quest’anno (+3,5%), mentre in Italia è cresciuta solo dal 44,2% al 46,5% (+2,3%), con un divario arrivato a 6,8 punti. Quello con la Germania, che arriva al 45%, è di ben 8,3 punti.

Le due principali sfide sono rappresentate dalla flessibilità del rapporto di lavoro, e dalla riduzione della peso della Pubblica amministrazione, con 120 mila dipendenti in meno attraverso il blocco del turn-over. La disoccupazione giovanile è doppia rispetto a quella britannica, per via della diversa partecipazione alla formazione superiore: tra i diciottenni, il 38% dei francesi continua a frequentare la scuola, rispetto al 21% dei coetanei inglesi. Tra i ventenni, la percentuale sale al 47%, rispetto al 40% degli inglesi. Non sarà facile far accettare una super Loi Khomri (il Job Act francese), con la flessibilità in uscita estesa a tutti. Nè basterà ridurre il costo del lavoro per eguagliare Il successo del comparto industriale tedesco dedito all’esportazione e quello della finanza britannica: il primo rappresenta il 46,8% del pil, mentre la seconda vale il 7,2%, con una differenza che si riflette nettamente sulle rispettive bilance commerciali, con l’avanzo strutturale tedesco (+8,5% del pil nel 2016) ed il permanere del disavanzo inglese (-4,4%). Ancora nel 2016, la Germania ha messo a segno un attivo commerciale verso la Francia di ben 35,8 miliardi di euro, oltre a quello record di 50,4 miliardi registrato con la Gran Bretagna. Parigi ha dunque un bel po’ da pedalare, come Londra.

Anche a Madrid l’aria non è delle migliori: la crescita superiore al 3% registrata nei due anni scorsi è stata determinata da un deficit pubblico a livelli record: 5,1% nel 2015 e 4,6% nel 2016, mentre era ancora del 10,5% nel 2012. Il debito pubblico è calato dal 100% al 98% del pil per via della crescita, così come la bilancia dei pagamenti sembra stabilizzata con un attivo attorno all’1% del pil. Ma la disoccupazione è rimasta a livelli record, con il 19,6% alla fine dello scorso anno. A mano a mano che si procede con gli aggiustamenti, con il deficit del 2017 al 3,3% (-1,3% rispetto al 2016). la crescita scende ancor più velocemente: sarà del 2,6% nel 2017 rispetto al 3,2% del 2016 (-1,4%). Anche la disoccupazione rimarrà ancora a livelli molto elevati, con il 17,7%. La boccata di ossigeno dell’alto deficit sta venendo rapidamente meno, e la crescita continuerà a decelerare, fino al +1,6% nel 2022, anno in cui la disoccupazione dovrebbe ancora essere del 14,5%. Sono prospettive ostiche, comunque si consideri la attendibilità delle previsioni.

Su Berlino il cielo è ancor più plumbeo. La detenzione di titoli tossici da parte del sistema bancario tedesco ed il conflitto geopolitico con gli Usa sono due aspetti che minano il benessere della Germania. La rielezione della Cancelliera Merkel, lungi dall’essere un vantaggio, potrebbe rappresentare un pericoloso indice di continuità su un duplice crinale, poco percorribile.

In primo luogo, come ha ricordato questa settimana il vice direttore generale Banca d’Italia Fabio Panetta ad un convegno dell’Abi, i sistemi bancari di Germania e Francia detengono insieme il 73% dei derivati dell’area euro, mentre i primi cinque intermediari, che non sono italiani, arrivano al 58%. Visto che i rischi si compensano solo nel caso di “perfect hedge” e poiché non è possibile stabilire se ciò avvenga, i rischi anziché compensarsi si sommano.

Oltre alle dimensioni, ci sono problemi di valutazione e di classificazione di questi asset di livello 2 e 3 . Di conseguenza l’illiquidità “può dar luogo a utili fittizi, rappresentativi di rischi occulti”. Ci sono poi arbitraggi contabili e normativi nella classificazione nel livello 2 anziché 3 che comportano vantaggi anche in termini di profitti iniziali e di stigma. Secondo la Banca d’Italia, la Vigilanza della Bce deve porre più attenzione ai derivati ed ai titoli tossici, dopo essersi concentrata sui crediti deteriorati, presenti soprattutto nelle banche del Sud Europa, che sono oggetto di pressione da parte dei supervisori.

C’è poi un rilevante rischio geopolitico per la Germania, che deriva dai rapporti con gli Usa e con la Russia. Se da una parte il Presidente americano Donald Trump non ha fatto mistero della sua contrarietà all’avanzo commerciale strutturale della Germania con gli Usa, definendolo al recente G7 di Taormina come un comportamento “molto, molto negativo”, dall’altra c’è la morsa che viene stretta dal Senato statunitense. Nel corso di questa settimana ha reso più stringenti le sanzioni verso la Russia per via della annessione della Crimea: nel mirino c’è la realizzazione della pipeline North Stream 2, che raddoppierebbe il flusso di gas russo diretto all’Europa passando attraverso la Germania. La reazione di Berlino è stata immediata, furibonda: questa decisione, che deve passare ancora al Congresso, favorirebbe le esportazioni americane di GNL e rappresenterebbe una indebita ingerenza nelle politiche energetiche europee.

Londra, Parigi, Madrid e Berlino devono affrontare problemi nuovi e criticità assai rilevanti. Roma potrebbe approfittarne, per risolvere le sue ben note difficoltà: debito pubblico, alcune banche da rimettere in sesto, ed immigrazione. Stavolta, non stiamo messi peggio degli altri, anzi.

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