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La speranza è che dopo i vertici in programma tra il 25 e il 27 maggio si avranno idee più chiare anche sui temi riguardanti difesa e sicurezza. Giovedì 25, alla vigilia del G7 di Taormina, a Bruxelles si terrà infatti il primo vertice Nato con la partecipazione dei due neopresidenti, l’americano Donald J. Trump e il francese Emmanuel Macron, vertice che Jens Stoltenberg ha definito “di corta durata, ma importante”. Il segretario generale della Nato ha anticipato i temi che saranno discussi: legami transatlantici, condivisione degli oneri e maggiore contributo della Nato alla lotta al terrorismo. In altre parole, la summa dei problemi occidentali.

I grandi temi

Sulla condivisione degli oneri, cioè sulle maggiori spese per la Difesa già chieste in passato da Barack Obama e dallo stesso Stoltenberg anche se Trump l’ha fatto con più nettezza, le posizioni sono destinate a rimanere le stesse. L’Italia non potrà mai passare dall’1,1 al 2 per cento del Pil, mentre forse nel vertice potrebbero essere poste le basi per valutare gli impegni di tutti i membri Nato nelle varie missioni: se il nostro Paese contribuisce più di altri, questo dovrebbe essere considerato. Sulla lotta al terrorismo Stoltenberg ha anticipato un probabile ingresso dell’Alleanza atlantica nella coalizione anti Isis, escludendo al tempo stesso la partecipazione ai combattimenti in Siria e in Iraq. Sarà interessante capire se Trump farà un discorso più articolato sui rapporti tra gli Usa e gli altri Paesi e su come intende il ruolo dell’Alleanza in futuro. Nel G7, oltre ai temi strettamente economici, i leader discuteranno di sicurezza e della stabilizzazione del Medio Oriente e del Nord Africa, argomenti che comprendono la gestione dei flussi migratori e il contrasto al terrorismo.

La Libia

La Libia sarà uno dei temi. Il 23 maggio si riunirà a Bruxelles il Quartetto che comprende Onu, Ue, Lega araba e Unione africana. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha già spiegato che l’Ue non si aspetta che la Nato “abbia un’operazione in Libia” in futuro e che ha già una missione nel Mediterraneo (Sea Guardian). Una più intensa attività diplomatica a tutti i livelli diventa però sempre più urgente. Le ultime notizie sono pessime: milizie estremiste hanno attaccato il 18 maggio l’aeroporto di Barack Al-Shati nel Fezzan, Libia meridionale, uccidendo 141 persone (alcune bruciate, altre sgozzate, altre ancora schiacciate da veicoli militari), di cui almeno 74 militari di un reparto del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk: all’annuncio di una reazione “crudele e forte” è seguito il giorno successivo il bombardamento aereo di basi di Al Qaeda a pochi chilometri da quell’aeroporto. Il premier Fayez al Serraj ha sospeso il suo ministro della Difesa a seguito di quell’attacco e fino all’individuazione dei responsabili: la prova che anche all’interno del governo riconosciuto dall’Onu c’è chi rema contro la pace. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, certamente riporterà nei vertici la posizione di Vladimir Putin che nel corso del bilaterale del 17 maggio ha garantito l’impegno della Russia per stabilizzare l’area. Il ministero degli Esteri egiziano, nel frattempo, ha invitato a non lasciare la Libia in mano a “gruppi illegittimi” che compiono atti terroristici con “sostegno e finanziamento straniero”. Altri attentati confermano che quando si intensificano gli sforzi diplomatici alcuni “attori” mediorientali rilanciano il caos.

L’Afghanistan

Il vertice Nato potrebbe affrontare anche il nodo Afghanistan. Il generale H. R. McMaster, Consigliere per la sicurezza nazionale, e il generale Jim Mattis, segretario alla Difesa, entrambi con esperienza diretta nell’area, hanno già da qualche settimana ipotizzato l’invio di almeno altri 3 mila soldati statunitensi per aumentare sia l’addestramento che le operazioni militari. Una posizione che nelle gerarchie militari americane era presente da prima della nomina dei due ex ufficiali decisa da Trump: lo scorso 9 febbraio, infatti, fu il comandante della missione afghana Resolute support, generale John Nicholson, davanti alla commissione Forze armate del Senato americano a dire di aver bisogno di diverse migliaia di soldati internazionali (quindi non solo americani) per sbloccare lo stallo della guerra ai talebani.

Le roccaforti dell’Isis

In Afghanistan, però, il problema oggi non è rappresentato solo dai talebani perché l’Isis ha ormai creato vere roccaforti nell’Est del paese. Il 7 maggio l’agenzia di stampa del presidente della Repubblica, Ashraf Ghani, annunciò che il 27 aprile il leader dello Stato islamico in Afghanistan, Abdul Hasib, era stato ucciso dalle forze speciali americane e afghane. In una recente newsletter del Cesi, il Centro studi internazionali, si ricorda che la cellula del Califfato controlla le province di Nangarhar e di Kunar al confine con il Pakistan, continua a destabilizzare l’area grazie ai finanziamenti che arrivano dal “comando” dello Stato islamico e “si pone come concorrente rispetto all’insorgenza talebana, acutizzando la crisi di sicurezza in Afghanistan”. Nelle ultime settimane gli attentati rivendicati dall’Isis sono aumentati: l’ultimo si è verificato il 17 maggio a Jalalabad City (capoluogo del Nangarhar) con l’attacco alla televisione di Stato e con un bilancio di 10 morti e 14 feriti mentre il 19 maggio, sempre nella stessa area, un agente di polizia ha ucciso nel sonno cinque suoi colleghi per poi rubarne le armi e unirsi all’Isis.

I dubbi degli esperti

Il fatto che la roccaforte dell’Isis sia ai confini con il Pakistan non è irrilevante. Nell’ultimo numero dell’Economist si espongono diversi dubbi sulle intenzioni statunitensi sostenendo che l’invio di più truppe non convincerebbe i talebani a una trattativa, posizione condivisa dalla maggioranza degli osservatori e degli analisti. Il settimanale britannico sottolinea che McMaster ha ingaggiato come consigliere per l’Asia centro-meridionale Lisa Curtis, presa dal think-tank Heritage Foundation. Nello scorso febbraio Curtis contribuì a scrivere un rapporto che invitava a mettere fine all’ambivalente ruolo del Pakistan nella lotta al terrorismo cancellando lo status di principale alleato non-Nato e suggerendo raid di droni contro i talebani proprio in territorio pakistano. Non sarebbe la migliore politica sull’Afghanistan, commenta l’Economist. Analoghi dubbi sono stati espressi dal Washington Post riportando anche pareri di esperti afghani: secondo il quotidiano, Trump deciderà entro il mese di maggio.

 

Numeri discordanti

Anche i numeri sull’entità dei contingenti non sono sempre concordanti. L’anno scorso Barack Obama disse che 8.400 soldati statunitensi sarebbero rimasti in Afghanistan per tutto il 2017 e a quella cifra si fa riferimento anche oggi quando si parla dei 3 mila che l’amministrazione Usa vorrebbe inviare in più. Gli ultimi dati ufficiali della Nato, risalenti a marzo, in realtà dicono che gli americani sono circa 7 mila su un totale di 13.500, così come per l’Italia la Nato ne indica 1.037 e il ministero della Difesa parla di una presenza media di 950. L’Italia ha aumentato il contingente l’anno scorso dopo la richiesta fatta da Barack Obama a Matteo Renzi nell’ottobre 2015 e oggi su quell’impegno, o almeno sull’entità del contingente, si continua a interrogarsi. Domande che in fondo riguardano la natura dell’intera missione Nato che da quando l’Isis ha preso piede in Afghanistan, insieme con l’aumento del territorio controllato dai talebani, ha assunto involontariamente un ruolo diverso. Perché la vera domanda alla quale i governi dovranno rispondere è: pur considerando che dopo quasi 16 anni dall’11 settembre sembra impossibile riuscire a rendere davvero sicuro l’Afghanistan, l’Occidente può permettersi di abbandonarlo a se stesso offrendo su un piatto d’argento al jihad un’enorme area geografica come base del terrorismo internazionale? L’unica cosa sicura è che la risposta non potrà essere contenuta nei 140 caratteri di un tweet.

Cosa si dirà al prossimo vertice Nato su Isis, Libia e Afghanistan

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