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Mercoledì 6 settembre è uscito sul New Yorker un articolo che prendeva in esame il “come” sarebbe una guerra statunitense con la Corea del Nord: questo tipo di analisi sono ormai quasi routine, ma l’articolo firmato da Robin Wright ha un valore in più perché la giornalista del magazine americano ha parlato con diversi ufficiali del contingente che Washington ha da anni schierato in Corea del Sud (si chiama USFK, acronimo di United States Forces Korea, ed è presente lì dal 1957 con fini strategici e come forza di deterrenza nei confronti di Pyongyang, che all’inizio degli anni Cinquanta aveva avviato una guerra per conquistare l’intera penisola).

I DUE SCENARI

Dicono i militari americani di stanza sul teatro sudcoreano che il conflitto sarebbe a più fasi: quella iniziale sarà certamente una fase convenzionale, come conferma al New Yorker il generale Gary Luck, ex comandante degli americani a Seul – e questa è una lettura diversa da quella di alcuni analisti che ritengono necessario un first nuclear strike contro il Nord, ossia tirare la Bomba subito e per primi per evitare che lo faccia Kim Jong-un. Secondo i militari della USFK ci sono varie strade per arrivare alla guerra, ma sostanzialmente gli scenari più probabili sono due. Primo, la Corea del Nord effettua un test missilistico e gli Stati Uniti (o con azioni cinetiche di intercettazione o con sabotaggi cyber) buttano giù il vettore, o appena prima del lancio o subito dopo (left-of-launch strike, in gergo tecnico): a quel punto Pyongyang risponderebbe per rappresaglia – il regime si regge sulle manifestazioni di forza, e veder un missile fare cilecca per colpa dei nemici esistenziali americani sarebbe insostenibile per Kim. Il Nord colpirebbe la Corea del Sud (con probabilità prima le postazioni militari) e sudcoreani e americani risponderebbero al fuoco: tutti gli attori in campo si sono già esercitati a questa possibilità, e sanno già perfettamente cosa fare, dove e come, nel giro di pochissimo tempo. Secondo scenario: Pyongyang lancia un attacco preëmptive convenzionale, per esempio con l’artiglieria del 38° parallelo, per anticipare gli americani (i preëmtive strike sono proprio questo: anticipare le mosse del nemico davanti a una minaccia concreta). Ci sono vari segnali che potrebbero far capire ai nordcoreani che un’azione americana è imminente: l’allontanamento del personale diplomatico e dei cittadini americani dalla Corea del Sud, il rafforzamento dell’apparato aereo, per esempio.

L’ATTACCO NON È LA PRIMA SCELTA

“Francamente non è la mia prima scelta, ma vedremo che cosa succede” ha dichiarato mercoledì scorso il presidente americano Donald Trump a proposito dell’opzione militare (erano i giorni di fall-out al test atomico di domenica 3 settembre). Le parole della Casa Bianca mettono in chiaro che tutta la retorica minacciosa alzata finora contro Kim altro non era, appunto, che retorica: il dipartimento di Stato e il Pentagono, da sempre, mantengono una linea più moderata, ribadendo durezza ma con la consapevolezza che comunque la si metta un’azione militare contro il Nord significherebbe entrare in guerra (intanto convenzionale), vincerla di certo, ma a caro prezzo; non è un segreto (i dati sono pubblicati, a pagamento, nel report annuale dell’International Institute for Strategic Studies) che i nordcoreani possono contare su un esercito ben preparato e sufficientemente invasato di 1,2 milioni di soldati, 600mila riservisti e centinaio di migliaia di paramilitari, e il Nord ha anche armamenti, compresi quelli chimici, biologici, e nucleari. Gli ufficiali americani dicono al New Yorker che al momento, al di là dell’immaginazione dei pianificatori militari, non c’è un modello studiato su una possibile guerra non convenzionale, anzi, le armi atomiche degli attori in campo, da Kim a Washington a Pechino, sono l’elemento che sta evitando un conflitto che altrimenti sarebbe stato certo.

IL PASSAGGIO ALL’ONU

Oggi, 11 settembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deciderà sulla richiesta di nuove sanzioni inserita in un piano presentato dall’ambasciatrice americana Nikki Haley la scorsa settimana. La Corea del Nord è un paese già piuttosto isolato dal regime sanzionatorio internazionale impostogli, ma Washington – secondo un documento visto dalla Reuters – adesso vorrebbe andare a metterlo sotto embargo petrolifero, chiudere i commerci del settore tessile e alzare su Kim un divieto di viaggio (un’azione simbolicamente molto forte: imporre sanzioni direttamente a un capo di stato). Pyongyang ha risposto alla diffusione delle notizie sulla risoluzione: “Gli Stati Uniti pagheranno un prezzo molto duro” per le loro azioni “da gangster” sulla risoluzione, “il mondo sarà testimone di una reazione severa della Corea del Nord contro gli Stati Uniti come non ne hanno mai vista”, recita un comunicato – al solito zeppo di propaganda anti-americana – del ministero degli Esteri di Pyongyang. Cina e Russia, che hanno veto al CdS Onu, si trovano in una posizione più dialogante. Mosca e soprattutto Pechino sono altri attori fortemente interessati: la loro presenza è l’aspetto politico-strategico che complicherebbe in modo mastodontico le previsioni tecnico-militari americane su un’azione Sud-Usa contro il Nord.

Kim

Come sarebbe una guerra contro la Corea del Nord?

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