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Accecato ormai dal suo rancore politico per Matteo Renzi, da cui si sente ingiustamente rottamato, specie dopo avere mancato l’obbiettivo di entrare nella commissione europea di Bruxelles nel 2014 come quasi ministro degli Esteri dell’Unione, Massimo D’Alema è diventato più un paradosso che un leader politico, quale sicuramente è stato per un certo tempo.
Il paradosso sta nel fatto che, pur volendo contrastare Renzi sino a rottamarlo a sua volta, e dopo esserci quasi riuscito contribuendo a fargli perdere il 4 dicembre scorso il decisivo referendum costituzionale, D’Alema proprio da quel giorno ha fatto tutto, ma proprio tutto ciò che serviva allo stesso Renzi per sfuggire alla rottamazione.
La scissione del Pd, per esempio, nella quale D’Alema è riuscito a trascinarsi appresso anche Pier Luigi Bersani, un personaggio che Maurizio Crozza era riuscito a rendere simpatico a tutti imitandolo bonariamente, ha consentito a Renzi non di vincere ma stravincere il congresso, pur avendo due concorrenti che hanno goduto prima e durante le primarie di ottima visibilità: il ministro addirittura della Giustizia Andrea Orlando, aiutato a stare sulle prime pagine dei giornali anche dai problemi che gli creavano di notte e di giorno i magistrati della vicenda Consip, e il governatore pugliese Michele Emiliano, riuscito a tradurre in un affare mediatico anche il grottesco incidente occorsogli ballando in piazza.
Dalla postazione di regìa del movimento creato con la scissione del Pd, e col rovesciamento della sigla, D’Alema riuscirà forse a togliere Renzi dalle sue difficoltà anche nella difficilissima partita della riforma elettorale, imposta non tanto da un capriccio o da un’impuntatura del presidente della Repubblica Sergio Mattarella quanto dal pasticcio, che fa pure rima con capriccio, combinato dalla Corte Costituzionale lavorando di ago e filo sulle due leggi in vigore, per il Senato e la Camera. Che sono immediatamente applicabili, come ha certificato la stessa Corte, ma per produrre due rami del Parlamento incompatibili fra di loro.

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Non appena Renzi, giustamente premuto da tutte le parti perché scoprisse finalmente le sue carte, ha fatto portare sul tavolo della competente commissione della Camera il cosiddetto Rosatellum, dal nome latinizzato del capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato, un po’ deboluccio e pasticciato di suo, bisogna ammetterlo, D’Alema ha mandato avanti Bersani, il suo assaggiatore politico, per annunciarne la tossicità. Una tossicità avvertita e denunciata anche dai grillini, che se ne sono sentiti un po’ le vittime designate perché  i più temuti da Renzi, e non solo da lui, nelle prossime elezioni, ordinarie o anticipate che finiscano per essere.
La stessa tossicità, infine, è stata avvertita da Silvio Berlusconi, che gioca da un po’ di tempo con gli animali che gli porta in casa la fantasiosa Michela  Vittoria Brambilla, ma non se ne lascia distrarre più di tanto. Egli preferirebbe notoriamente il ritorno al sistema proporzionale anche per tenersi libere le mani e non farsele tagliare dall’ingombrante Matteo Salvini nella partita post-elettorale. Pertanto ha visto nel maggioritario proposto dal Rosatellum per la metà dei seggi parlamentari in palio una specie di prigione con le chiavi in mano, per la sua parte politica, ai leghisti.
Ma alla denuncia di tossicità D’Alema ha aggiunto qualcosa che d’incanto ha finito per aprire uno spiraglio a Renzi: due cose, in particolare.
Innanzitutto il signor Paradosso ha aggiunto un po’ di benzina al vecchio fuoco della Banca Etruria unendosi alle richieste delle dimissioni della renziana sottosegretaria ed ex ministra Maria Elena Boschi a causa di quell’incontro di due anni fa, rivelato dall’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, con l’amministratore di Unicredit per suggerirgli, sia pure inutilmente, di risolvere i problemi anche del padre vice presidente, e non solo dei numerosi risparmiatori, acquistando la banca toscana in pericolo. Come se D’Alema, peraltro, ai suoi tempi di governo e di maggiore potere, non si fosse mai occupato di banche e di “capitani coraggiosi” impegnati in vertiginose scalate industriali e finanziarie. Certo, lui non aveva il padre interessato in prima persona, ma i problemi erano pur sempre di banche e affini.
Il secondo supplemento del signor Paradosso è stato quello di rinverdire le occasioni e gli anni d’incontri e d’intese di Renzi con Berlusconi per sostenere che i due, in fondo, sono fatti per intendersi, al di là di qualche malinteso. Come se, anche questa volta, D’Alema accordi con Berlusconi non ne avesse mai cercati e fatti, o lasciati proporre: all’epoca, per esempio, dell’ultima commissione bicamerale per le riforme istituzionali da lui presieduta grazie all’appoggio dell’allora Cavaliere, o all’epoca di ben due edizioni della corsa al Quirinale in cui Berlusconi fu tentato dal suo consigliere e amico Giuliano Ferrara di appoggiare proprio D’Alema, fidandosene più di Carlo Azeglio Ciampi e poi di Giorgio Napolitano.

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A Berlusconi non è parso vero potere accogliere i due assist involontari del signor Paradosso, anche lui in due mosse.
Con la prima mossa il presidente di Forza Italia è tornato a prendere le difese della Boschi nell’affare della Banca Etruria e, visto che si trovava, di Renzi, familiari e amici nel pasticciaccio giudiziario della Consip.
Con la seconda mossa il presidente di Forza Italia ha proposto a Renzi, visto che è già sospettato dal suo nemico di volersi accordare con lui, di farlo davvero sulla riforma elettorale con una legge che ripristini, con o senza le correzioni tedesche o di altro tipo, il sistema proporzionale, in modo da  rinviare a dopo le elezioni la partita delle maggioranze o coalizioni di governo. In cambio Berlusconi, fino all’altro ieri preso o addirittura paralizzato dall’attesa che la Corte di Strasburgo gli riaprisse la strada della candidabilità chiusagli dalla cosiddetta e controversa legge Severino, la stessa che gli è già costata la decadenza da senatore, ha offerto a Renzi la disponibilità a sostenere il ricorso alle elezioni anticipate in autunno. Che è musica per le orecchie del segretario del Pd, ma forse anche del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, perché solo due eroi o matti -come preferite- potrebbero volere mandare allegramente alle elezioni ordinarie, nella primavera dell’anno prossimo, i cittadini alle prese con gli effetti della pesante legge finanziaria del 2018 che reclamano o si aspettano a Bruxelles e a Berlino.

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