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Esattamente 50 anni fa, l’8 agosto 1967 veniva firmata a Bangkok la dichiarazione istitutiva dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, fra Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Tailandia. Oggi l’ASEAN conta 10 paesi membri e 620 milioni di abitanti, detiene una quota di PIL mondiale pari ad oltre il 3% ed oltre il 7% delle esportazioni globali.

È considerato, per il suo grado di coesione, il secondo più grande esperimento di integrazione sovranazionale dopo l’Unione Europea. È naturale quindi che da subito si sia pensato come far interagire in maniera sinergica questi due blocchi di paesi: UE e ASEAN. Soprattutto, va detto, l’idea è stata per lungo tempo come esportare il modello europeo al sud-est asiatico.

Oggi, dopo la Brexit e le profonde asimmetrie fra paesi membri innescatesi nell’area euro, non è più tanto chiaro se l’Unione Europea sia ancora un modello d’integrazione vincente, da essere esportato nel mondo in vista di una integrazione internazionale fondata sul multilateralismo.

La UE, che aveva promesso un modello federale di integrazione sovranazionale, fondato sulla frammentazione e ricomposizione della sovranità dei cittadini su vari livelli di governo,  si è invece arrestata a metà del percorso. Si è trovata a festeggiare il 60° anniversario dei Trattati di Roma, il 25 marzo scorso, in una terra di mezzo che non è né confederale né sovranazionale, determinando incertezza ed incapacità di comprendere chi prende davvero le decisioni; una situazione che rischia di essere fatale alla tenuta dell’intera UE.

Fin quando il mondo era diviso in due aree d’influenza ascrivibili alle due superpotenze era tutto sommato facile, sia per la UE sia per l’ASEAN, prender (o perder) tempo, inserendosi nelle logiche – subalterne ma comode – di appartenenza a quelle sfere d’influenza, ciascuno perseguendo il proprio modello d’integrazione senza preoccupazioni riguardo ai tempi ed alle responsabilità globali che questo comportava.

Adesso che il mondo appare dominato da una rete più ampia di colossi economico-politici di dimensioni continentali (USA, Russia, Cina, India, Brasile, etc), gli Stati appartenenti a UE ed ASEAN non hanno una dimensione tale da consentirgli di essere protagonisti nella ridefinizione globale degli equilibri di potere. O uniscono le forze o sono destinati a soccombere a logiche altrui.

Piuttosto che nascondere la testa sotto la sabbia, ignorando le sfide di lungo periodo di un sistema economico e politico globale che presenta nuove problematiche di equilibri sempre più delicati (ed agguerriti) e di crescenti fattori di interdipendenza, che devono essere opportunamente governati, UE ed ASEAN si trovano ad un crocevia.

I due sistemi maggiormente integrati oggi esistenti sono chiamati a dire al mondo intero se credono davvero nei modelli di gestione sovranazionale delle sfide, e come intendono assumersi le responsabilità che competono loro.

Le prospettive a breve termine sono chiare: una maggiore condivisione di obiettivi strategici relativi alla sicurezza globale, tra i quali la questione nord-Coreana riveste ovviamente un ruolo di primo piano (l’Alto Rappresentante per la politica estera UE, Federica Mogherini, era in questi giorni a Manila proprio per questa, principale, ragione); e magari il rafforzamento delle partnership commerciali dopo il fallimento dei trattati di libero scambio bilaterali con gli Stati Uniti.

Anche le prospettive a medio termine sono chiare. Un esempio fra tutti: l’incontro della prossima settimana fra 50 giovani UE ed ASEAN, a Bangkok, per discutere di sviluppo sostenibile ed economia circolare, nella comune percezione che i temi della sostenibilità siano una sfida che può essere affrontata solo al livello di un’ampia cooperazione internazionale.

Quella che invece manca ancora oggi è un’agenda per il futuro.

L’ASEAN ha registrato, è vero, uno straordinario successo economico. Allo stesso tempo il grado di cooperazione in aree fondamentali come educazione e salute è cresciuto in maniera significativa negli ultimi decenni. Ma il suo livello d’integrazione finanziaria è ancora scarso a causa di forti resistenze corporative, il che rischia di rendere l’area vulnerabile ad attacchi speculativi. Per non parlare dell’integrazione politico/istituzionale. L’ASEAN ha deciso di puntare tutto su un modello rigorosamente ed esplicitamente confederale di gestione del processo d’integrazione (una “associazione fra nazioni”, appunto), in cui cioè la sovranità di ciascun paese non è mai stata messa in discussione. Forse proprio questa chiarezza ha giovato alla crescita economica ed al parziale successo della sua logica d’integrazione di tipo funzionalista, permettendo a ciascun paese membro di perseguire i sui obiettivi di sviluppo senza vincoli di sorta. Allo stesso tempo, quel modello non ha attenuato le divisioni politico-militari, per le quali l’ASEAN si è impegnata semplicemente ad assicurare (e solo recentemente) dei tavoli di dialogo. Ma il dialogo, si sa, serve a poco quando i venti di conflitto rischiano d’aumentare d’intensità.

Finora le logiche degli interessi economici hanno prevalso sull’eccessiva degenerazione dei conflitti in senso militare (che pure non mancano, ma vengono definiti “dispute” nel linguaggio diplomatico: gli eserciti si sparano a vicenda, lasciando sul terreno qualche decina di morti, ma non viene dichiarata ufficialmente alcuna guerra), assicurando un’area di ‘sostanziale’ pace e rispetto reciproci.

Ma il futuro globale evolve rapidamente; ed è pieno d’incognite. La sensazione è che mentre la UE è chiamata a ritrovare con urgenza il senso originario del suo progetto d’integrazione, quello della creazione di una genuina democrazia sovranazionale, l’ASEAN (assolutamente non pronto per questo obiettivo) debba invece rafforzare la legittimità dei processi democratici prima di tutto a livello subnazionale (senza ovviamente mettere a repentaglio la tenuta complessiva dei delicati sistemi politici ed etnico/religiosi nazionali). Ed allo stesso tempo contribuire alla costruzione di un’identità multilivello ed aperta, inclusiva, a cerchi concentrici (cosa che in realtà ha da tempo iniziato a fare, anche se in maniera troppo timida e modesta): unica garanzia per affrontare le sfide del futuro in modo non conflittuale.

Perché questo accada servono tempo, volontà politica, istituzioni solide; serve cambiare paradigmi culturali e soprattutto imparare dagli errori altrui. In questo, nessuno come gli Europei può avere qualcosa di utile da insegnare…

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