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Come stanno reagendo le imprese alla sfida del digitale? Come stanno riorientando le loro strategie di comunicazione? A queste e a tante altre domande prova a rispondere il libro di Mauro Pecchenino ed Eleonora Dafne Arnese, “Digital Corporate Communication”, edito da Franco Angeli.

L’impatto dei social media ha modificato in profondità il modo in cui le aziende si approcciano al loro “pubblico”, vale a dire alla platea dei potenziali consumatori. Guardati fino ad oggi come meri destinatari di un messaggio fabbricato dagli “esperti” entro le mura aziendali, o dalle società di consulenza e marketing chiamate alla bisogna, i consumatori sono divenuti in realtà attori, sono entrati in un certo senso nell’età adulta: vanno coinvolti, stimolati con campagne che in qualche modo intercettino il loro stile vita; vanno “curati” quasi singolarmente, con una speciale attenzione alle richieste di chiarimenti o, perché no?, alle critiche che inoltrano in tempo pressoché reale dai loro account social o attraverso le chat. Una sfida, appunto, ma anche un’occasione. Per guadagnare nuovi mercati ed anche per mettere i giovani alla prova con le nuove professioni di cui l’”economia di internet”, come la chiamano i signori del web di Google, è il primo motore.

La digital corporate communication ha di fatto creato, evocandole dal nulla, una serie di figure professionali (social media manager, content curator, web integrator) di cui fino a qualche anno fa sarebbe stato arduo anche solo ipotizzare l’esistenza. Come poi queste figure e la propensione delle grandi imprese (per le piccole, almeno in Italia, il discorso è diverso: siamo ancora nella fase delle prima infanzia) a presidiare in forze lo spazio del web possano sposarsi con le tecniche più tradizionali di comunicazione, ma anche di marketing e relazioni pubbliche, è una domanda cui gli autori rispondono squadernando un ampio ventaglio di casi aziendali (alcuni celebri, come quello della multinazionale Unilever per il suo marchio di cosmetica Dove); ma è una domanda che alla fine non può che restare inevasa.

Nulla cambia più velocemente dei canoni della comunicazione digitale. Ciò che oggi appare – e magari effettivamente è – un dato consolidato dall’esperienza e dai risultati, può divenire obsoleto nel giro di pochissimo tempo. L’evoluzione tecnologica, il continuo proliferare di nuovi strumenti, le aspettative mutevoli del pubblico sono variabili di un’equazione in un certo senso “aperta”, la cui soluzione non può che essere sempre transitoria, sempre in fieri. Prima del lancio dell’Iphone Apple commissionò un’indagine di mercato in Usa, Giappone e Corea del Sud per tastare il polso ai consumatori, per capire quale accoglienza avrebbero riservato ad un prodotto con cui il gigante di Cupertino si proponeva di “integrare” i vecchi device in uno solo; la risposta fu raggelante: preferiamo tenerci i nostri lettori Mp3 e i nostri cellulari. Serve aggiungere altro?

Il web può trasformarsi talora in un terreno minato, un antro oscuro nel quale all’impresa (ma il discorso si attaglia perfettamente a tutti i soggetti attivi sulla scena pubblica) gli attacchi possono venire da direzioni impensabili; ma è proprio la loro imprevedibilità a renderli potenzialmente devastanti, come le cronache ci insegnano. Il pericolo è in agguato, e solo chi è in possesso delle doti comunicative e delle competenze adeguate a fronteggiarlo (gli autori citano il caso Moncler, a noi viene in mente quello Eni, due aziende che hanno saputo parare con grande efficacia i colpi assestatigli dai guastatori di Report al comando di Milena Gabanelli) può coltivare la speranza di uscirne indenne.

A ben vedere, però, questo antro non è ermeticamente chiuso. Anzi, basta guardare con un po’ di attenzione al suo interno per rendersi conto che le zone illuminate sono più di quelle in ombra. Fuor di metafora, significa che “l’economia di internet” offre straordinarie opportunità a chi ha il coraggio di coglierle, si tratti  delle piccole imprese arrembanti di cui il libro racconta le gesta, imprese che il web libera dalle catene del localismo per aprirgli gli spazi un mercato tendenzialmente illimitato, o di soggetti più “tradizionali” che dalla tradizione tuttavia non vogliono lasciarsi imbalsamare.

Il case study, in questo caso, può essere quello della Fim Cisl il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, che il suo responsabile della comunicazione Augusto Bisegna ha presentato in occasione della presentazione romana del libro. La Fim ha colto al volo le potenzialità dei social media e le ha sfruttate sia per accrescere la sua visibilità sul panorama mediatico sia per dare nuova linfa, sul piano interno, al rapporto con la sua “comunità” di riferimento, iscritti, delegati sindacali, dirigenti.

Questo a riprova che nemmeno sul piano del sociale – come pure su quello della politica – esiste più un modello di comunicazione a taglia unica, dal momento che il mix tra strategia e tecniche, tra quelle che gli autori chiamano le “cinque leve della comunicazione” (Relazioni pubbliche, marketing diretto, pubblicità, promozioni, sponsorizzazioni) e gli strumenti, dal web a quelli tradizionali, deve per forza di cose tener conto di un gran numero di indicatori di riferimento. Di questo complesso mix fa parte anche la Corporate social responsbility (Csr), la responsabilità sociale d’impresa, uno strumento di relazioni pubbliche, come spiegano gli autori, che in Italia non si è ancora guadagnato lo spazio che, nel corso degli ultimi 20 anni, si è invece guadagnato in altri paesi europei e nordamericani. La pratica di stilare un bilancio sociale consente non solo di presentare all’esterno, con tutte le ricadute che ciò può comportare sul piano dell’immagine, un lato finora rimasto in ombra della realtà d’impresa, vale a dire il suo connotato di soggetto sociale e relazionale. Ma anche di consolidare i rapporti con il variegato mondo degli stakeholder, il cui peso – nell’era del web – si è indubbiamente accresciuto. Inoltre la responsabilità sociale mostra qui il suo potenziale di strumento di comunicazione. Su un versante diverso ma non così lontano, quello presidiato dai soggetti che si muovono nella sfera sociale, a cominciare dai sindacati, accade da tempo qualcosa di simile: le buone pratiche – il rispetto di alcuni valori guida, delle normative in materia di ambiente e lavoro, la trasparenza in ambito amministrativo e finanziario – sono diventate a tutte gli effetti uno strumento di comunicazione, uno dei modi, e tra i più importanti, di rapportarsi con i media ed in generale con l’opinione pubblica. Comunicazione e reputazione non solo si integrano, ma possiamo dire che ormai sono assorbite l’una nell’altra.

 

 

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