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Giusto prima delle festività pasquali il governo ha sottoscritto con le parti sociali un accordo per la realizzazione del “reddito di reinserimento”, laddove il sostegno finanziario va integrato con una serie di misure attive (formazione, incentivazione etc.) miranti a integrare il “povero” nei processi sociali ed economici in modo che sia in grado di camminare con le proprie gambe e non si ripieghi su se stesso confidando solo sull’aiuto pubblico.

Sopra le Alpi si tratta di una pratica oramai usata da più di 50 anni, pratica che non ha niente a che vedere con il reddito di cittadinanza o con lo smig (salario minimo garantito) ma che tende positivamente a responsabilizzare chi non sa generare le risorse necessarie a garantirsi una qualità di vita accettabile.

Alla fine dei conti, il processo, se funziona, più che un costo, rappresenta un risparmio, perché mira a rendere attivi (cioè produttivi) segmenti della popolazione che ora non lo sono. Il problema sta proprio qui: bisogna saperlo far funzionare. E, per far funzionare un meccanismo positivo di questo tipo, le risorse finanziarie, seppur necessarie, non sono la componente più importante.

È dall’inizio di questo secolo che collaboro con le autorità svizzere su questi problemi. Mi permetto, quindi, di richiamare quali sono i tre pilastri su cui si fonda questo metodo e cioè: (1) formazione, (2) matching tra cercatori di impiego e posizioni libere nel mercato del lavoro, e (3) integrazione delle varie prestazioni di welfare. Accennerò qui ai tre punti separatamente.

La formazione è uno strumento fondamentale del reinserimento. Si tratta di fornire a chi non guadagna abbastanza le capacità professionali che gli permetteranno di integrarsi nel mercato del lavoro. In Svizzera in questo momento si stanno riconvertendo molti operatori originariamente occupati in attività impiegatizie, oggi soppresse dall’informatica, in professionisti dei servizi alla persona. Qui dovremo rivedere tutto il nostro sistema di formazione professionale agganciandolo a profili professionali credibili e non a profili frutto della combinazione alchemica della cultura delle burocrazie regionali e quella dei socio-psicologi del lavoro anziché, come sarebbe auspicabile che fosse,  della collaborazione tra i datori di lavoro e i lavoratori.

Bisogna, poi, che chi cerca di integrarsi nel mondo della produzione del reddito possa trovare dove collocarsi. Questo richiede che il mercato del lavoro abbia bisogno di collaboratori e che il cercatore di lavoro possa essere accompagnato in maniera efficace là dove le sue capacità siano richieste. Nel caso in cui il mercato del lavoro sia stagnante bisognerà attivare metodi per rendere conveniente per l’impresa reclutare temporaneamente figure non strettamente necessarie. Per poter accompagnare il cercatore d’impiego a trovare il datore di lavoro che ha bisogno delle sue competenze è necessario, di nuovo, che si metta in piedi un sistema di griglie di profili professionali tali da permettere di  fare il matching.

Ma il vero pilastro su cui si basa tutto il sistema è l’integrazione di tutte le prestazioni di welfare, sia quelle di integrazioni al reddito che quelle di aiuto alla persona che quelle di sostegno alla reintegrazione nel mondo del lavoro per arrivare alle borse di studio per i figli. In Ticino all’inizio di questo secolo si è passati da un sistema che gestiva le singole prestazioni ad un sistema che gestisce l’utente in quanto obiettivo di prestazioni diverse che devono essere integrate. Il “povero” è di solito disoccupato (quindi ha bisogno dei servizi delle agenzie per l’impiego), ha bisogno di un supporto finanziario (quindi ha bisogno dell’aiuto dell’amministrazione comunale), ha problemi di depressione (quindi ha bisogno dello psicologo) e, spesso, ha bisogno di ricreare il suo rapporto con il suo nucleo famigliare (qui ha bisogno del consulente famigliare).

Per fare questo è necessario creare un reticolo di rapporti istituzionali, da non confondersi con la rete dei rapporti personali degli operatori del sociale che cercano di sopperire con l’iniziativa personale alla mancanza di una architettura istituzionale integrata. Il passaggio dalla gestione delle singole prestazioni alla gestione dell’utente, realizzato attraverso l’istituzionalizzazione di un reticolo di rapporti collaborativi tra i vari enti erogatori delle prestazioni, in Ticino è stato complesso ma non difficile.

In Ticino, a differenza di casa nostra, la distribuzione dei compiti tra i vari enti relativamente alla erogazione delle prestazioni sociali è molto chiara e non dà luogo a confusioni. L’integrazione poteva contare su mappa chiara della distribuzione delle funzioni da integrare. Da noi la situazione è molto diversa. La distribuzione delle funzioni di welfare è una vera e propria giungla, tra ASL, Comuni, Associazioni di Comuni, gestioni associate, terzo settore, giungla in cui gli stessi operatori hanno difficoltà ad orientarsi (Per chi volesse avere una mappa del nostro welfare mi permetto di rimandare a M. Balducci, L. TRE RE, L’organizzazione dei Servizi Sociali, Milano Angeli, 2016).

La sfida del reddito di reinserimento non è, dunque, una sfida finanziaria ma una sfida di ingegneria organizzativa. Mi auguro che chi sarà al governo al momento di doverla affrontare se ne renda conto e sappia far tesoro delle esperienze gestionali di chi, sopra le Alpi, ha affrontato la stessa sfida diversi decenni fa.

Massimo Balducci, docente alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze

Come far funzionare il reddito di reinserimento

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