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Le elezioni in Gran Bretagna e in Francia hanno dato almeno due segnali fra loro convergenti. Il primo: l’isolazionismo e il populismo nazionalista, alla prova dei fatti, quando cioè i cittadini sono chiamati ad effettuare le loro scelte con la testa, non più con la pancia, non portano consensi.

Si tratta di un risultato per niente scontato fino a qualche tempo fa, in assoluta controtendenza rispetto a quanto mostrato dagli umori elettorali nel corso del 2016, ma che era stato preceduto da segnali altrettanto forti ed inequivocabili in Austria ed Olanda.

In Gran Bretagna la premier Theresa May ha cercato un consenso elettorale che le desse via libera per negoziare una hard-Brexit, un’uscita dalla Ue mostrando i muscoli a Bruxelles ed agli altri 27 paesi membri. I cittadini britannici hanno capito che un’opzione di questo tipo avrebbe solo innervosito l’Europa e determinato un inasprimento delle condizioni negoziali, sulle quali la Gran Bretagna può incidere solo parzialmente. Al di là delle logiche di politica interna, con un parlamento sospeso (hung Parliament), privo di una maggioranza di governo, l’indebolimento della posizione della May porta inevitabilmente ad una nuova fase nei negoziati per l’uscita del paese dalla Ue, i cui esiti non è facile prevedere.

In Francia, Macron ha tentato una scommessa. Ha capito che l’elettorato francese, in grande maggioranza, non sarebbe stato disposto a transigere o scherzare sull’appartenenza della Francia all’area dell’euro e all’Unione Europea. E piuttosto che scegliere per un’ipotesi di uscita ‘al buio’, ha preferito dare a Macron il compito di riformare questa Unione Europea e questa eurozona che non funzionano; che ha tradito le aspettative dei cittadini europei, appiattendosi nella gestione di vincoli macroeconomici nazionali piuttosto che rilanciare la crescita in una nuova dimensione sovranazionale. Un compito che si è assunto esplicitamente e pubblicamente in campagna elettorale e che da adesso in poi sarà chiamato a mantenere.

Il secondo segnale di questi turni elettorali è che i cittadini europei sono spaesati. Hanno perso capacità di incidere sulle scelte collettive (con le responsabilità e i diritti che esse comportano). Rimanendo quindi svuotati del contenuto stesso della cittadinanza, dell’essere membro di collettività più ampie rispetto ai singoli individui.

Hanno perso i riferimenti statuali a difesa delle loro aspirazioni, del welfare state, delle opportunità di affermazione personale, di crescita, di giustizia sociale. La politica nazionale appare, nella maggior parte dei casi, una casta di mera gestione del potere, alla rincorsa del consenso elettorale a tutti i costi, non un gruppo di persone a servizio della collettività.

D’altronde, è stato tradito il sogno di una grande comunità continentale in grado di sostituirsi agli inefficienti Stati nazionali nella soddisfazione di parte dei bisogni dei cittadini. L’Europa, anche e soprattutto l’eurozona, ha messo in mostra egoismi nazionali, non solidarietà. Si è lasciata irretire nella politica (deresponsabilizzante) dei vincoli, non nell’esercizio discrezionale (faticoso, rischioso) di scelte collettive.

Come ho già scritto altrove a più riprese, siamo in mezzo al guado: abbiamo abbandonato la sponda delle sovranità nazionali, conflittuali, inadeguate ad affrontare le sfide interne e globali in un mondo che cambia alla velocità della luce. Ma la sponda opposta di una genuina democrazia sovranazionale, con sovranità condivise, appare ancora incerta, lontana, non definita. La crisi economica ha alzato il livello dell’acqua, rischiando di farci annegare. E la paura ci spinge a guardare indietro.

Gli elettori, i cittadini europei, esprimono esattamente l’idea di questa situazione di disagio profondo; di sentirsi travolti dalla marea che monta, senza sapere da che parte rivolgersi, in assenza di una guida politica che indichi una strada convincente.

In questo quadro, drammatico, un politico come Macron che ha deciso con coraggio e fermezza di indicare una strada, quella della sponda delle sovranità condivise, ha raccolto ampi consensi. Così come ha perso consensi chi ha indicato (May), senza sufficiente chiarezza, come tornare alla completa sovranità nazionale.

Ma attenzione. Il livello di paura e di reattività dei cittadini è sempre più alto. Un ennesimo fallimento nella costruzione di una democrazia sovranazionale in Europa farebbe tornare immediatamente e più prepotentemente che mai l’esigenza (e l’illusione) di poter recuperare, a livello nazionale, la sovranità persa.

Francia e Germania hanno la responsabilità storica di far compiere all’Europa, o a parte di essa, quel salto di qualità verso una democrazia sovranazionale che possa ridare senso alla cittadinanza europea.

Ci piacerebbe che anche l’Italia potesse giocare, come storicamente ha fatto, un ruolo da protagonista nella costruzione di questa nuova Europa, mediando fra le posizioni tedesche e francesi.

Ma la credibilità interna ed esterna di questa classe politica, unanimemente, unicamente ed irresponsabilmente volta alla raccolta del consenso per la gestione di un potere senza sovranità, non può che indurre ad un rassegnato pessimismo.

In mezzo al guado, alla ricerca della sovranità perduta

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