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Oggi e domani a Washington si tiene il summit della Global Coalition To Counter Isis, al quale parteciperanno ministri e delegati di 68 paesi, tra cui l’Italia. Obiettivo: discutere dei prossimi passi da fare per mettere in ginocchio lo Stato islamico in Siria ed Iraq, ma anche nei Paesi in cui operano i gruppi ad esso affiliati.

I partecipanti si attendono di udire dai membri dell’amministrazione Trump quali siano i piani che ha recentemente elaborato per imprimere un’accelerazione alla lotta contro il gruppo jihadista. Piani che sono al momento segreti, anche se la stampa ha già fatto trapelare alcuni elementi interessanti.

Gli Stati Uniti hanno da annunciato qualche settimana fa l’intenzione di essere parte attiva nei combattimenti per dare l’ultima spallata allo Stato islamico nella sua capitale, la città siriana di Raqqa. Le forze Usa che saranno schierate sul terreno avranno il compito di sostenere l’offensiva delle miilizie curdo-siriane del SDF, le uniche che hanno coerentemente combattuto l’Isis negli ultimi tre anni, conseguendo risultati importanti.

Ma questa prospettiva irrita non poco uno dei membri della Global Coalition, la Turchia, che sta osteggiando in ogni modo il ruolo dei curdi che essa considera terroristi. Il summit darà probabilmente l’occasione di sciogliere questo nodo, mettendo la Turchia di fronte ad un fatto compiuto avallato da tutti gli altri membri della coalizione. Ma poiché gli Usa hanno un occhio di riguardo per l’alleato turco, è probabile che, almeno nei colloqui bilaterali, Ankara riceverà ampie rassicurazioni sul futuro assetto della Siria post-Isis e, soprattutto, sull’opportunità che a occupare le zone lasciate libere dai jihadisti siano forze esclusivamente arabe.

La discussione su questo punto interessa molto però anche gli altri membri arabi della Coalition, quelli che hanno sostenuto le fazioni ribelli sunnite nella guerra civile siriana. La loro preoccupazione è l’ambizione iraniana di divenire il dominus di Iraq e Siria una volta che lo spauracchio jihadista sarà stato tolto di mezzo. L’Iran è stato determinante per marginalizzare i ribelli, colpiti brutalmente dall’asse sciita-russo che dalla fine del 2015 ad oggi ha mutato gli equilibri del conflitto a favore del presidente siriano Assad.

La prospettiva di una Siria di nuovo riunificata sotto il tallone di Assad, e di un Iran egemone, sarà probabilmente uno dei temi affrontati nel summit. Al quale non sono stati invitati né la Russia né l’Iran. Questi ultimi, d’altro canto, hanno già avviato a gennaio un processo di pace parallelo, con i colloqui di Astana organizzati con il sostegno della Turchia.

Le visioni inconciliabili delle due coalizioni mettono in evidenza come la strada per una risoluzione definitiva dei problemi del Medio Oriente sia in salita. Ma con il summit di oggi, l’Occidente potrà dare mostra della propria forza al fine di ritagliarsi un posto di rilievo al tavolo della pace. Ma non ci sono solo Siria e Iraq.

Nell’agenda del summit c’è anche la lotta al jihadismo diffuso, ossia alla presenza di formazioni terroristiche affiliate all’Isis o ad al-Qaida in paesi come la Libia, la Somalia, l’Egitto o la Nigeria. Un programma di lungo termine per il quale c’è bisogno del più ampio coordinamento e di unità d’intenti.

L’America probabilmente riaffermerà la propria leadership in questo campo, invitando gli alleati a fare di più contro le insurrezioni locali con il determinante aiuto di Washington. La lotta al terrorismo è un affare di generazioni, dunque il summit di oggi non sarà certo l’ultimo.

Bannon, siria, donald trump isis Corea

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