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L’attuale dibattito sul concetto di post-verità rappresenta uno dei classici corto circuiti comunicativi in cui il problema viene scoperto, discusso e amplificato dagli stessi soggetti che hanno profondamente contribuito alla sua creazione. E tanto più forte è il clamore e la preoccupazione rispetto al dilagare della post-verità, quanto più ci si allontana da riflessioni adatte a produrre maggiore conoscenza sul tema. Eppure, dopo questa premessa volutamente polemica, cogliamo l’occasione di questa preoccupazione sui destini della verità al tempo di Internet per due ordini di ragionamenti: uno, coerentemente con l’impostazione del problema, tutto interno al sistema dei media; il secondo, di portata sociale più ampia.

La digitalizzazione della comunicazione ha profondamente modificato il panorama mediale contemporaneo, sia in termini di soggetti deputati alla produzione di contenuti informativi, sia per quanto riguarda le pratiche quotidiane di fruizione del bene notizia. Rispetto al mercato tradizionale, l’avvento di nuove piattaforme per la produzione e distribuzione delle notizie, insieme ai nuovi sistemi per la remunerazione del lavoro giornalistico, ha determinato una competizione più agguerrita e, per certi, versi spietata. Velocità di circolazione delle news, produzione di contenuti h24, ottimizzazione dei costi e competizione feroce per aggiudicarsi il maggior numero di click sono ingredienti di un mix che non ha fatto bene alla qualità del giornalismo contemporaneo.

Quando si invoca il ricorso alla specializzazione del fact-checking per contrastare il dilagare della post-verità si sta semplicemente spacciando per innovazione quella che dovrebbe essere la prima regola del giornalismo: la verifica delle fonti e dei dati, da fare prima (e non dopo) della pubblicazione. Redazioni flessibili e spesso popolate di collaboratori precari e non del tutto formati sono una risposta in termini di bilancio aziendale, non certo per quanto riguarda la qualità.

In questa rivoluzione dell’ecosistema comunicativo, però, sono cambiati profondamente anche i lettori. Sempre più abituati a frequentare i social network e a dover gestire un continuo bombardamento di notizie. Le news online estendono la loro influenza più per la capacità di intercettare i meccanismi di funzionamento dei network, che per la qualità intrinseca del loro valore notizia. Tutto ciò, al netto di vere e proprie strategie per la diffusione di informazioni finalizzate all’aumento dei click e al conseguente ritorno economico in termini di traffico e pubblicità.

Eppure, il quadro appena descritto, spiega solo in parte la drammatizzazione che stiamo osservando rispetto al tema della post-verità. E questo apre a un interrogativo per certi versi polemico, ma necessario per superare le troppe frasi fatte che circolano al momento sulla post-verità. Se pensiamo al caso recente delle elezioni americane, abbiamo assistito alla produzione e diffusione di un volume di notizie false e denigratorie tale da far quantomeno ipotizzare l’esistenza di un qualche meccanismo di ingegnerizzazione del processo (al netto delle indagini in corso). È altresì vero, però, che ai tempi dell’amministrazione Bush, com’è stato ricordato da più commentatori, un mondo dell’informazione decisamente più tradizionale e ufficiale raccontò all’opinione pubblica mondiale che Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa. A voler pensar male, si potrebbe sostenere che la posta in gioco nell’attuale dibattito sulla post-verità sia il monopolio nella gestione delle narrazioni, più che il bisogno di ricondurre le stesse a un qualche principio di obiettività.

Eppure la discussione pubblica innescata intorno al tema della post-verità consente di riflettere con maggiore attenzione su alcune questioni di fondo che riguardano l’intera società, uscendo dallo stretto steccato dei professionisti della comunicazione. È davvero difficile negare, infatti, che i comportamenti online dei soggetti segnalino ormai da tempo un profondo mutamento nei rapporti tra cittadini e mondo dell’informazione. Per comprenderli, al di là delle infiammazioni discorsive del momento, occorre tematizzare il ruolo delle competenze digitali quale faro in grado di orientare la navigazione dei soggetti all’interno delle news online, accanto alla pesante crisi di fiducia nelle istituzioni e a tutte le mediazioni. Il fatto che più di 25 milioni di italiani utilizzino Facebook, ad esempio, racconta di una quota significativa della popolazione italiana che è riuscita ad acquisire un set di competenze tecniche di base quantomeno utili alla navigazione. La capacità di distinguere una bufala da una notizia verificata, però, riguarda le competenze informative e non informatiche. Riconoscere che le prime non sono meno importanti delle seconde è la vera questione su cui occorre concentrarsi.

Il proliferare di notizie che dileggiano le istituzioni e mettono in discussione sempre e comunque la versione ufficiale per raccontare retroscena sordidi che confermano i peggiori sospetti (che spesso albergano già nelle menti dei soggetti che condividono queste fake news) è l’emblema della crisi delle istituzioni, da leggere nel più ampio quadro teorico dei processi di disintermediazione. Non godono più della fiducia dei cittadini, vengono raccontate (quando non infangate) attraverso news prodotte sempre più spesso da media non ufficiali, perché lo stesso sistema dell’informazione è vittima della stessa drammatica crisi reputazionale. Ecco perché i post di Facebook raccontano comunque, a noi scienziati sociali, un pezzo di verità.

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