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Direttore Louis Freeh, quando e dove ha incontrato Giovanni Falcone per la prima volta? Che impressione ebbe di lui?

Era il 1983, io ero procuratore federale a New York e stavamo indagando sul caso che è stato poi rinominato “Pizza Connection”. Gaetano Badalamenti era il capo della “Cupola” e l’accusato principale, molti degli altri accusati erano invece membri di diversi gruppi organizzati a New York, come la famiglia Banano e le altre famiglie siciliane negli Stati Uniti. L’FBI conduceva quell’indagine in stretta collaborazione con la Polizia Italiana: al tempo conobbi tramite l’FBI Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli, che erano due giovani ufficiali, e il giudice Liliana Ferraro, abbiamo iniziato a collaborare perché stavamo seguendo gli stessi individui. Falcone giunse a New York ancor prima, credo fosse il 1982, quello fu il primo momento in cui lo incontrai. La prima impressione che avemmo fu quella di parlare con una persona forte, determinata e competente, un ottimo procuratore che si prendeva molto tempo per analizzare i fatti e studiare tutti i dettagli. Era interessatissimo sul modo in cui raccoglievamo informazioni. Falcone ci ha fornito informazioni e testimoni fondamentali, come Tommaso Buscetta, che lui convinse a cooperare. Noi invece avevamo il vantaggio di poter mettere i testimoni sotto un programma di protezione, così avvenne per Buscetta, mentre in Italia in quel momento non era possibile. Avevamo l’autorità di fare intercettazioni telefoniche, la Corte ci dava il permesso di fare sorveglianza elettronica, cosa che a Roma al tempo era più difficile.

Quindi il primo interrogatorio con Buscetta è avvenuto negli Stati Uniti?

Si, Giovanni era presente, io e i miei colleghi della Procura lo aiutavamo, poi abbiamo deciso di spostare Buscetta negli Stati Uniti sotto il programma di protezione U.S. Marshals: quello fu il momento cruciale in cui tutti capimmo che sarebbe divenuto un importantissimo testimone sia nel processo a Palermo che in quello a New York.

Che ruolo ebbe in particolare Falcone nel caso “Pizza Connection”? Come fu portata avanti la collaborazione fra le due sponde dell’Atlantico?

Tra il 1984 e il 1985, prima che il processo iniziasse, era ormai chiaro che avevamo bisogno della collaborazione di Buscetta. Lui accettò di collaborare perché si fidava di Falcone, credo che se non si fosse fidato di lui non avrebbe assolutamente collaborato con noi. Il più grande contributo di Giovanni era il fatto che di lui si fidavano i testimoni e soprattutto che nei suoi interrogatori in Italia aveva raccolto prove fondamentali: dichiarazioni dei pentiti, documenti e video. Quel materiale fu messo a disposizione per il nostro caso e lo abbiamo usato tutto.

Sappiamo che negli ultimi anni Falcone ricevette più di una delusione, talvolta gli venne a mancare il supporto dall’ autorità pubblica. Paolo Borsellino disse che Falcone cominciò a morire nell’88, quando gli fu preferito Antonino Meli a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Le parlava mai della sua carriera?

No, non ne ha mai parlato. Certo noi ne eravamo al corrente, ma lui era così dedicato al suo lavoro che non avrebbe mai discusso di questioni politiche con noi. Nemmeno per sé era una persona ambiziosa, credo fosse interessato a quella posizione perché sapeva che avrebbe potuto ottenere un contributo maggiore nella lotta alla mafia, ma non si è mai preoccupato della sua carriera o di una promozione.

Non parlava mai di politica con voi? Qui in Italia qualcuno è riuscito a etichettarlo come un giudice di sinistra..

No, quando sono diventato giudice, prima che lui fosse ucciso, ne abbiamo parlato e lui scherzò dicendomi: “Louis, ora che sei un giudice basta con le accuse!”, e io gli risposi: “No hai ragione, ormai non posso più farle”, ma stavamo giocando. Io fino a quel momento ero stato un pubblico ministero a New York e di colpo smettevo di esserlo, lui paragonava la mia situazione al suo trasferimento a Roma, e io gli dicevo “Chi sa cosa ci riserverà il futuro”. Ovviamente non potevamo sapere che avrebbe riservato la morte per lui e per sua moglie.

Dopo che Falcone fu assassinato, avete cooperato con le autorità italiane nelle indagini sul suo assassinio?

Si, abbiamo lavorato strettamente con gli italiani: trovammo delle prove accanto al detonatore vicino all’autostrada di Capaci, erano delle sigarette che risultarono connesse a uno degli imputati. Abbiamo aiutato gli italiani anche con le intercettazioni telefoniche. Inoltre appena avvenne l’omicidio inviammo circa venti agenti dell’FBI per lavorare insieme alla polizia italiana.

Crede che la morte di Giovanni Falcone abbia cambiato qualcosa?

Credo che il suo omicidio sia stato un tale shock, e un crimine così odioso che è accaduto per la prima volta i palermitani si sono infuriati contro il governo che non è stato in grado di proteggerlo né di ridurre il potere della mafia. Le morti di Falcone e Borsellino furono una pessima decisione per la mafia, invece che ridurre il potere della polizia, hanno aumentato la loro dedizione e le loro risorse, ha reso i rapporti con l’FBI ancora più solidi.

Quanto è presente oggi la mafia italiana negli Stati Uniti? C’è ancora una stretta collaborazione tra i gruppi statunitensi e la mafia siciliana nel narcotraffico?

Di “Cosa Nostra” e le famiglie a New York venti anni fa erano veramente potenti, oggi sono molto più deboli perché c’è stata un’accusa ampia e sostenuta contro di loro. Se oggi diventi un boss di queste famiglie, sai che all’improvviso sali in cima alla lista degli obiettivi dell’FBI. Per questo molti membri di questi gruppi non vogliono diventare leaders, perché sarebbe una scelta pessima per il loro futuro. Oggi ci sono molti più informatori e pentiti che parlano con l’FBI, la mafia negli Stati Uniti si è notevolmente indebolita. Ovviamente hanno ancora legami e contatti con l’Italia e con altri gruppi organizzati. Nel vostro paese è differente, la mafia siciliana è ancora un’organizzazione potente, credo che oggi la ’ndrangheta e la camorra lo siano perfino di più.

Lei ha voluto che un busto di Giovanni Falcone fosse eretto nell’Accademia dell’FBI. Qual è stato e qual è oggi il lascito di Falcone per l’FBI?

Falcone ha ancora oggi un forte riconoscimento nell’FBI, alcuni degli agenti tutt’ora in servizio hanno lavorato con lui. Tutti gli anni c’è una nuova delegazione di agenti che si reca al memoriale a Palermo, per capire quale è stato il suo lavoro. Abbiamo deciso di mettere la sua statua nell’Accademia per l’addestramento e non nei quartieri centrali dell’FBI, perché vogliamo che gli agenti giovani sappiano chi è stato, come lavorava, e di cosa sono simbolo la sua vita e la sua morte: fedeltà, fiducia nello stato di diritto, integrità, perché lui non sarebbe mai sceso a compromessi, coraggio. Falcone è stato una delle persone più coraggiose che io abbia mai incontrato: sapeva bene che ogni giorno avrebbe potuto pagare le conseguenze del suo lavoro.

Vi racconto Giovanni Falcone

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