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Santa ingenuità. Più delle piroette di Beppe Grillo, congeniali al mestiere principale di comico, stupisce la facilità con la quale in tanti le prendono sul serio e scommettono sulle svolte che esse di volta in volta rappresenterebbero.
Prima è stata la volta, di recente, del presunto garantismo costituito dalla rinuncia all’automatismo fra la ricezione o il preannuncio di un avviso di garanzia e le dimissioni del “portavoce” destinatario, intendendosi naturalmente per portavoce il parlamentare o l’amministratore locale a 5 stelle. Una rinuncia però nient’affatto automatica, rimanendo necessario il consenso sostanzialmente inappellabile del “garante”, cioè Grillo, e della sua squadra. E il tutto comunque limitato ai pentastellati, liberi di dileggiare e reclamare le dimissioni degli avversari indagati.

Come si faccia a scambiare una cosa del genere per garantismo, per svolta o svoltina, Dio solo lo sa.
Poi è stata la volta dell’Alde, il gruppo liberal-democratico del Parlamento di Strasburgo, il più convinto dell’integrazione europea e della moneta unica, nel quale Grillo aveva deciso all’improvviso di fare entrare i suoi “portavoce” per aumentarne il peso, ricavarne i vantaggi da regolamento e diventare -parola dello stesso Grillo- “l’ago della bilancia”. E tutti, o molti, a gridare “finalmente”, persino a rivalutare quell’intelligentone di Pier Luigi Bersani, che aveva capito genialmente per primo nel 2013 la risorsa democratica costituita dall’approdo dei grillini in Parlamento, sino ad offrire a loro il cappio del suo governo minoritario e a togliere il sonno al povero Giorgio Napolitano. Che al Quirinale gli aveva incautamente dato l’incarico di presidente del Consiglio e non vedeva l’ora di toglierglielo.

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L’avventura dei grillini nell’Alde, per quanto suffragata dal 78 per cento dei quarantamila elettori digitali delle 5 stelle su quasi il doppio degli iscritti, è durata comicamente meno di 24 ore. Dall’Alde i pentastellati sono passati all’Aldilà, pardon Aldelà, a causa della rivolta giustamente esplosa fra i liberali dell’Europarlamento, che hanno chiuso a più mandate la porta. Mica quelli sono fessi come noi, al punto di scambiare Grillo per il compianto Giovanni Malagodi, storico segretario del Pli, o addirittura per un redivivo Luigi Einaudi o Antonio Martino, firmatario dei primi trattati europei in Campidoglio 60 anni fa.

E che ti fa Grillo quando si sente respinto, e a questo punto guardato con diffidenza dall’inglese Nigel Farage, restio a riprenderselo dopo la comica svoltina liberale? Grida al solito establishment che lo vuole emarginare avendone paura.
Siamo insomma al complotto demo-pluto-giudaico-massonico di mussoliniana memoria.Tutti ce l’hanno coi grillini, anche votandoli per farli cadere nelle trappole del potere. È ciò che disse peraltro la senatrice pentastellata Paola Taverna sentendo odore di vittoria del suo movimento a Roma nella primavera dell’anno scorso con Virginia Raggi candidata a sindaca, che già preparava la sua squadra con le informazioni e i consigli di Raffaele Marra. Che non è un omonimo ma proprio lui: quello di cui il tribunale del riesame ha appena confermato la detenzione sotto l’accusa di corruzione e non ricordo più che altro.

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Buone notizie si fa, per dire, dal fronte parlamentare sull’armonizzazione e omogeneizzazione delle regole raccomandate dal capo dello Stato per l’elezione delle nuove Camere.

Poiché nel Pd non sanno più che pesci prendere, come al solito, fra un Renzi meno deciso di quanto avesse lasciato credere reclamando le elezioni col ripristino del vecchio sistema che porta il nome latinizzato del presidente della Repubblica, Mattarellum, e le minoranze incerte pure loro, e divise, su come boicottare comunque i progetti del loro segretario, si è deciso di fare scrivere dalla Corte costituzionale a fine mese anche la legge elettorale della Camera, dopo avere scritto con la prima sentenza del 2014 la legge per il Senato.

La diciottesima legislatura potrà così chiudere in bellezza, si fa per dire, con un’altra rinuncia della politica ai suoi compiti. Il presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, grande studioso del Medio Evo giuridico, non ha voluto saperne di rinviare di nuovo il pronunciamento sul cosiddetto Italicum, come fece in ottobre per non disturbare il referendum. Che pure riguardava la riforma costituzionale e non la legge elettorale della Camera, se non per i riflessi polemici della campagna del no per il cosiddetto combinato disposto.

I parlamentari e i partiti che sono alle loro spalle sentitamente ringraziano per il risparmio di energie. Un po’ meno ringrazia forse il capo dello Stato, ed ex giudice costituzionale, che vorrebbe il Parlamento a sovranità vera, non limitata, come si diceva delle democrazie dell’est ai tempi dell’Unione Sovietica. Ma se ne farà una ragione pure lui.

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