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Obiettivi. Sfide. Opportunità. Intralci. E rischi. Ecco cosa vede Donald Trump secondo Carlo Pelanda, professore, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma, che in questa conversazione con Formiche.net commenta il primo discorso del presidente Usa al Congresso e parla anche di Gop, di finanza, di Cina e di molto altro.

IL MESSAGGO DEL ~SOTU

Professore, che messaggio lascia il presidente dopo il primo discorso al Congresso? “I politici americani governano se hanno il consenso continuo: è un’alimentazione che non può essere staccata, e iniziare come ha fatto lui con meno del 50 per cento di approval rendeva praticamente impossibile l’azione di governo”. “Dobbiamo considerare – continua Pelanda – che Trump stesso era il primo a non credere nella sua vittoria: lui non si aspettava di battere Hillary Clinton, ma puntava a perdere bene per crearsi una piattaforma politica e di pensiero che lo potesse aiutare nel business e influenzare spostamenti interni al Gop verso un neo-nazionalismo”. Il Gop (che sta per Grand Old Party, il nome con cui viene indicato il Partito repubblicano in America) è uno degli elementi di sensibilità di questa amministrazione? “Quando Trump ha vinto è rimasto spiazzato, ha fatto scelte infelici a causa del suo staff e adesso sta cercando di raddrizzare la barra, e lo sta facendo con l’aiuto del partito”. Lo stratega Stephen Bannon, considerato il fulcro coperto attorno a cui si dipana il potere presidenziale, è una di queste scelte? “No, Bannon non è troppo criticato dai repubblicani, che invece hanno attaccato diversi altri elementi, tutti prontamente sostituiti da Trump”.

IL RAPPORTO COL PARTITO

“Ora – continua il professore – non è che Trump e i suoi hanno rinunciato a far prevalere la loro impalcatura ideologica all’interno del partito, ma per il momento è in atto un compromesso: Trump è riuscito a ricompattare gli anarchici del Tea Party, i conservatori centristi e i repubblicani provinciali, quelli la cui linea è incarnata dal vice presidente Mike Pence, e di questo l’establishment politico gli dà atto, e aspetta”. Che fase abbiamo davanti? “La leadership del Gop non ama Trump, ma lo trova funzionale per questa sua capacità, non dimentichiamo che Trump ha creato uno schema di vittoria interno ai collegi, conquistando aree geografiche (per esempio il Michigan, ndr) che non sono storicamente repubblicane”. C’è un braccio di ferro con cui il partito vuole farlo rientrare in una linea più normale, quella vista al discorso di martedì sera per esempio, ma è quindi attualmente in tregua? “Diciamo che c’è una pausa pragmatica, i repubblicani non vogliono creare sconvolgimenti perché hanno un obiettivo, chiudere le elezioni di medio termine con un buon risultato e riconfermarsi al Congresso”.

IL BILANCIMENTO PRAGMATICO

Che tipo di bilanciamento è in atto? “Trump cede parecchio terreno sulle questioni più care ai repubblicani, per esempio gli aspetti di difesa ed esteri. La scelta di Rex Tillerson come segretario di Stato pare sia stata molto spinta dai Bush, per dire. O ancora, la decisione di aumentare il budget del Pentagono è un meccanismo per creare spesa assistenziale e fare politica”. In che senso? “È un metodo sostitutivo per creare spesa sociale, perché produce economia e lavoro in un mercato protetto. Bisogna considerare che l’industria degli armamenti negli Stati Uniti è distribuita su tutto il territorio, e questo dà anche un ritorno politico, perché permette a tanti senatori di andare nei propri stati a dire che questa amministrazione, che loro appoggiano, si sta muovendo per l’occupazione e per far riprendere l’economia”. Quello che le gente cerca.

IL PROBLEMA DI TRUMP: I RISULTATI 

“A questo punto, messo in chiaro che Trump non è pazzo o improvvisato, perché è chiaro che si muova con una strategia, c’è un problema reale: i risultati”, spiega il professore. Parliamo di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato in campagna elettorale? “Certamente. Trump ha un programma ambizioso, pensiamo per esempio all’Obamacare: abolirne l’intera struttura e sostituirlo con qualcos’altro è un’opera che richiede anni. Ed è ovvio che lo stia facendo con l’aiuto del partito: per esempio, lo stratega di Bush Karl Rove sta spesso in televisione e ne parla come uno molto sul pezzo, segnale che ci sta lavorando lui e chi per lui, quindi il partito”. Cosa può andare storto? “Trump sta spingendo molto sull’economia, perché sta cercando di prendere da lì i risultati più immediati, altro esempio le riforme al sistema fiscale. Questo piace per il momento al partito e alle borse, che gli stanno dando fiducia, ma stanno giocando con lui. Mettiamo che i risultati non arrivino, già tra qualche mese gli attori finanziari potrebbero decidere di togliergli la fiducia, facendo precipitare le borse per poi risollevarle”.

E I RISCHI?

Un gioco rischioso, che però ci riporta sul tema del consenso, giusto? “Siamo lì: il partito è in tregua, mira alle elezioni e aspetta i risultati, ma se entrambi questi obiettivi dovessero fallire potrebbe tornare belligerante e far calare il sostegno (stesso gioco, più d’interesse, quello della finanza). A quel punto, se il partito e il contorno venisse a mancare, per cavalcare la profezia della risurrezione americana, quella che porta gli indispensabili consensi, Trump avrebbe soltanto un’opzione politicamente: crearsi un nemico contro cui magnetizzare, a suo favore, l’attenzione. E allora, chi potrebbe essere? L’Islam? Difficile, quello è più narrazione elettorale del momento, ma potrebbe invece essere la Cina: perché se devi crearti un nemico bisogna che sia globale, sistemico”. Però questo creerebbe conseguenze molto ampie. “Credo che l’aspetto preoccupante dell’amministrazione Trump – prosegue Pelanda – sia proprio questo rischio, la creazione di questo attore, nemico esterno. Più delle beghe politiche del momento: Trump ha una linea, ma il rischio è che venga destabilizzata perché negli Stati Uniti è in corso un assestamento tra varie leadership che va oltre Trump”.

Vi spiego gli ostacoli che dovrà superare Donald Trump. Parla Pelanda

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