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Lo Stato islamico ha rivendicato l’azione terroristica di Karak, in Giordania, dove domenica lo storico castello crociato è finito sotto l’attacco di quattro uomini armati che hanno ucciso 10 persone (di cui sette agenti di polizia tra cui anche un alto ufficiale delle forze speciali, una turista canadese e due civili giordani). L’azione è cominciata quando le forze di sicurezza hanno provato a entrare in una casa in cui i quattro alloggiavano: i poliziotti erano stati avvisati da un vicino, insospettito da un’esplosione. All’arrivo degli agenti c’è stato un conflitto a fuoco, poi i sospettati sono fuggiti e hanno attaccato una stazione di polizia, prima di passare al castello di Karak, una popolare destinazione turistica. “Promettiamo ai paesi della Coalizione ancora più gravi ripercussioni”, è scritto nel messaggio di rivendico dell’IS.

Le forze di sicurezza giordane sostengono che l’appartamento servisse ai quattro, membri di una cellula che aveva l’obiettivo di colpire le forze di sicurezza, come deposito di armi. L’inviato del New York Times ha definito “grande” la quantità di armamenti trovata nell’appartamento, armi da fuoco, esplosivi, giubbotti kamikaze: non c’è un numero, ma le autorità ritengono che questo suggerisce che la cellula avesse in programma di colpire in modo più incisivo e organizzato in Giordania. L’esplosione avvertita dal vicino e il successivo intervento di verifica della polizia ha portato gli attentatori, ormai scoperti, a rivedere i piani e muoversi in fretta verso un soft target come il castello di Karak per massimizzare gli effetti del loro attacco — tra l’altro, il turismo è uno dei principali settori economici del paese.

La vicenda rappresenta una notizia importante, perché “Il Regno della Pace” nonostante si trovi al confine della guerra in Iraq e Siria non è stato interessato da azioni terroristiche negli ultimi anni. Anzi, è quasi considerato un esempio — la sua intelligence è considerata tra le migliori del Medio Oriente, e questo ha contribuito alla sicurezza giordana. Ma da tempo l’IS minaccia Amman, stretta alleate americane nel conflitto siro-iracheno (è parte della Coalizione internazionale US-led), e allo stesso tempo in coordinamento con le attività russe (iraniane e siriane). Per esempio, uno dei principali fronti della guerra civile siriana, il Fronte Sud, è costituito dalla lotta di fazioni dell’opposizione non jihadiste, armate e addestrate da un programma guidato dalla Cia, e utilizzate dagli americani (anche) per liberare dalle infiltrazioni baghdadiste tutta l’area che dalla fascia meridionale di Damasco va fino al confine giordano. Attualmente il Fronte Sud è in stand by, riceve poca spinta dagli Stati Uniti, e il suo ruolo è stato ovattato probabilmente da un’intesa siglata personalmente da Vladimir Putin quando nel 2015 è andato in visita da re Abdullah II ad Ammam: era il 24 novembre e Putin stava cercando di creare tutte le migliori condizioni a contorno per la missione russa, iniziata ufficialmente da meno di due mesi – per altro, quello stesso giorno un bombardiere russo era stato abbattuto dai turchi, a proposito di condizioni a contorno.

Stare con Russia e Stati Uniti, la realpolitik con cui il regno hashemita ha condotto l’ultimo anno, significa però attirarsi addosso come una calamita l’odio dei jihadisti siriani, tutti. E per questo il paese è sensibile alla questione terrorismo. A giugno lo Stato islamico aveva già rivendicato un attentato kamikaze in cui rimasero uccisi sei border patrol giordani al confine siriano. E a metà novembre in una delle basi in cui i ribelli siriani vengono addestrati c’è stato un episodio ancora aperto: tre soldati americani sono stati uccisi da un militare giordano sul cancello dell’ingresso dell’impianto in cui stavano prestando servizio. (Un pilota giordano è stato catturato a gennaio del 2015 dai miliziani dello Stato islamico e bruciato vivo in una gabbia, in una delle più efferate e iconiche immagini del Califfato).

Manar Rachwani, editorialista di Al Ghad, un quotidiano indipendente, ha detto al New York Times che la sua sensazione è che i radicalizzati giordani siano in aumento, e certamente soluzioni come quella di Aleppo sul conflitto siriano, con il disinteresse americano e le violenze russo-siriane (e iraniane) sulla popolazione, non possono che acuire questa tendenza – tuttavia è lo stesso quotidiano americano a citare un sondaggio di quest’estate in cui l’89 per cento degli intervistati giordani ha detto di considerare l’IS un’organizzazione terroristica, una delle percentuali più alte nei paesi della regione. Secondo le stime sono circa 2000 i giordani che si pensa siano partiti per combattere il jihad califfale o per unirsi in Siria alla fazione ex qaedista al Nusra.

“La disoccupazione è alle stelle. Il nostro settore sanitario è saturo. Le nostre scuole sono davvero in un momento difficile”, ha detto re Abdullah in un’intervista alla CBS. “È estremamente, estremamente difficile. Noi non possiamo più [farlo]” ha aggiunto riferendosi al grande numero di profughi della guerra siriana accettati – un miliardo di aiuti ce li hanno messi gli Stati Uniti.

Martedì, durante un’operazione di polizia sulle tracce di possibili elementi collegati agli attentatori di domenica, quattro agenti sono rimasti uccisi sempre nei pressi di Karak.

 

Lo Stato islamico voleva colpire pesantemente la Giordania

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