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Federico Cartelli (giovane, colto e non conformista co-fondatore di The Fielder) ha appena pubblicato per le edizioni La Vela un agile e piacevolissimo saggio sulla vittoria elettorale di Donald Trump, cogliendone a mio avviso l’essenza.

Cartelli, infatti, non si limita a descrivere ciò che è stato chiaro agli osservatori privi di pregiudizi già a campagna elettorale in corso: che Trump dava voce all’America di una classe media e medio-bassa impaurita e impoverita; che si rivolgeva a chi era stato dimenticato ed escluso per anni dall’agenda politica ufficiale (“the forgotten men and women”); che intercettava non tanto la crisi delle democrazie tradizionali, quanto soprattutto l’insofferenza delle persone comuni verso il potere e la sua incapacità di dare risposte concrete.

Cartelli fa di più e arriva al cuore del problema, che per certi versi supera lo stesso Trump. Si tratta – questo è il punto – del fallimento di un’aristocrazia politica, intellettuale, giornalistica, che non ha capito nulla, ed è rimasta prigioniera della sua autoreferenzialità e dei suoi complessi di superiorità.

La rassegna di Cartelli è impressionante sul “prima”, sul “durante” e sul “dopo”: sui sorrisini che hanno accompagnato l’annuncio della candidatura Trump, sulla demonizzazione che giorno dopo giorno ha colpito la sua campagna (in contrapposizione ai tappeti rossi srotolati dai “mainstream-media” sotto i piedi di Hillary Clinton), e infine sull’ondata di contestazioni isteriche del risultato elettorale (fino al surreale appello “democratico” ai grandi elettori affinché il voto popolare fosse disatteso).

Sta qui il punto su cui il “chirurgo” Cartelli si concentra efficacemente: gli “esperti” che non capiscono più, gli “influencer” che non influenzano più nessuno, le élites e gli establishment persi in una autoreferenzialità superiore e in ultima analisi “alienata” dalla realtà.

Il recupero che Cartelli fa di un’antica grandiosa osservazione di Sergio Ricossa è letteralmente illuminante: “Gli intellettuali di sinistra amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato”. Molti anni dopo, presumo senza conoscere la lezione di Ricossa, Peter Thiel, uno dei pochi multimilionari della Silicon Valley ad aver apertamente sostenuto Trump, ha detto una cosa analoga: “I suoi avversari hanno preso Trump alla lettera ma non sul serio, i suoi elettori lo hanno preso sul serio ma non alla lettera”.

I suoi avversari hanno dimenticato le prime tre regole del manuale della politica: che bisogna occuparsi degli elettori più che dei candidati; che gli elettori “percepiscono” per via emozionale e non solo per via intellettuale; che che ciò che appare oltraggioso o scandaloso per le élites non necessariamente lo è per i cittadini comuni.

Naturalmente, occorre evitare l’errore opposto a quello degli scandalizzati anti-Trump in servizio permanente effettivo, e cioè trasformarsi in tifosi “trumpisti” a prescindere. Per quanta soddisfazione possa averci dato il fatto di aver assistito al tracollo di nervi di un intero establishment, ora occorre essere seri, severi, razionali.

Personalmente, non ho trovato “adeguato” il discorso inaugurale di Trump: nella forma, cupo, direi quasi “dark”, gotico. E, nella sostanza, con passaggi poco rassicuranti in politica estera e sul commercio internazionale. Ma non c’era da attendersi altro. Perché Trump avrebbe dovuto smettere di essere Trump? Perché avremmo dovuto pretendere da lui un approccio da “scholar” dell’American Enterprise Institute? Perché avremmo dovuto attenderci – da liberisti – che lui mettesse le cose nel nostro stesso contesto? Errore, errore nostro.

Piuttosto, se vogliamo avere un approccio positivo e propositivo, senza rinunciare all’indispensabile spirito critico, concentriamoci su tre aspetti. Primo: Trump ha costruito una squadra robusta e competente (Flynn alla sicurezza nazionale, Pompeo alla Cia, Mattis alla Difesa, Tillerson agli Esteri). Dopo queste ottime scelte, consentirà loro di lavorare davvero, oppure li costringerà a un ruolo marginale? La prima sensazione (Trump lo ha fatto in modo esplicito nella conferenza stampa con Theresa May, quando ha detto che consentirà al generale Mattis di “override”, cioè di ignorare e scavalcare il parere presidenziale) è che voglia valorizzare quelle competenze, riconoscendone il valore. Secondo: ha colto nel segno nell’individuare il problema strategico rappresentato dalla Cina, tra militarizzazione scatenata e furto su larga scala di segreti industriali. Saprà (la scelta di Peter Navarro come “trade-envoy” sembra un ottimo segnale) tenere a bada il drago cinese? Terzo: ha scelto per sé il profilo del “deal-maker”. Vediamo che tipo di “deal” realizzerà, e in questo senso l’incontro con Theresa May e la prospettiva di un accordo commerciale con il Regno Unito sembra un ottimo inizio.

Vi restano ancora dei dubbi? Legittimo. E in parte condivido. Ma adottiamo la “soluzione” proposta dal grande Charles Moore, l’editorialista thatcheriano di Telegraph e Spectator, che si è detto più “interessato” che “preoccupato” per il fenomeno Trump. Pensate all’alternativa, ha scritto: una “sisterhood saga”, una saga di sorellanza tra la Clinton e la Merkel, tra alte lamentazioni morali e inconsistenza concreta. Esattamente il terreno obamiano che ha consentito a Putin di guadagnare posizioni su posizioni…

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