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Un nuovo fantasma chiamato post-verità pare aggirarsi per il mondo globalizzato. Questa la nuova minaccia dopo che lo scorso novembre l’Oxford dictionary ci ha sbattuto in faccia la definizione della parola dell’anno: “Relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali”.

La formazione dell’opinione pubblica sembra, dunque, non poter più prescindere da dinamiche emotive al limite del manipolatorio e della distorsione. E post-truth ce lo ricorda ogni giorno, fra chi la nega, chi le attribuisce un ruolo determinante nei processi di smantellamento dell’élite precostituita, chi la vede come la prova del crollo della civiltà occidentale. Ma è proprio così? La diffusione di questo termine ha avuto un andamento ascendente per tutto lo scorso anno, con picchi in concomitanza con il referendum britannico sulla Brexit e con le presidenziali Usa. Ma post-truth non è una parola che nasce nell’era dei social. Interessante notare – come ricorda l’Oxford dictionary – che il primo a usarla sulle pagine del magazine statunitense The Nation fu Steve Tesich nel 1992, a commento dell’affaire Iran-Contras, questione allora altamente polarizzante per l’opinione pubblica statunitense.

Una delle possibili letture del dibattito sulla disinformazione e sulla post-verità passa, infatti, proprio attraverso un’altra parola-chiave: polarizzazione. Tematica che ben si sposa con il potere evocativo di alcuni argomenti che sono al centro dell’agenda dei media. In un mondo connesso h24, la disinformazione, casuale o volontaria, ci pone così al centro di una serie di rischi che toccano temi come politica, economia e anche salute pubblica. Quanto accaduto col referendum britannico su Brexit o con le elezioni americane, del resto, sembra aver violentemente risvegliato le istituzioni sugli effetti concreti di un certo modo d’informarsi basato sempre più su posizioni preconcette e su un approccio emotivo che non aiutano la reale comprensione degli eventi.

Già nel 2013, però, il World economic forum aveva inserito la disinformazione, con le sue conseguenze, fra le principali minacce globali. L’emittenza tradizionale ha perso di credibilità; mediazioni e mediatori classici non vengono più riconosciuti come tali, mentre la Rete offre apparentemente tutto ciò di cui si ha bisogno. In questo processo di esposizione al flusso di notizie ininterrotto e disintermediato, i social network sono un mondo perfetto in cui emerge la tendenza ad acquisire informazioni che aderiscono più al nostro sistema di credenze che alla verità sostanziale dei fatti.

Grazie alle dinamiche tipiche della Rete, questi utenti si incontrano in luoghi definiti echo chamber; ambienti che diventano una specie di camera di risonanza per le proprie ansie, dove non c’è confronto con chi la pensa diversamente, ma dove, anzi, si rinforzano vicendevolmente le proprie posizioni, possibilmente radicalizzandole. Tutto ciò avviene attraverso un meccanismo ben noto in psicologia cognitiva come pregiudizio di conferma, che definisce la tendenza a esporsi selettivamente a contenuti che sono in linea col nostro sistema di credenze, cercando così la conferma dei nostri pregiudizi.

Qual è, allora, la possibile soluzione? Si ritiene che l’azione di debunking, cioè il confutare le false informazioni attraverso il fact checking, possa essere lo strumento per ristabilire una coscienza corretta dei fatti. Lo dimostra il caso americano, con i tentativi di testate autorevoli come il New York Times di smascherare le false affermazioni di Trump durante la campagna elettorale. Un flop. Dalle ricerche effettuate a partire dal 2012 nel laboratorio di Computational social science dell’Imt di Lucca è emerso che arginare il fenomeno del dilagare delle false informazioni correggendo semplicemente i dati offre risultati pressoché irrisori: solo l’1% degli utenti delle echo chamber esce dalle proprie stanze e si confronta con le informazioni di segno opposto. Sostanzialmente ciò chiarisce come il fact checking operato attraverso il debunking vada a colpire solo la fascia di utenza già ben disposta verso quel tipo di correzione.

Ancora una volta, dunque, torna in campo il confirmation bias – altra definizione da tenere a mente per comprendere la diffusione su larga scala della disinformazione attraverso i social media – che ci spinge ad avventurarci in terreni della conoscenza che sono a noi già familiari. Questo accade soprattutto di fronte a questioni che vanno a toccare le nostre corde emotive. Non è un caso che queste tematiche polarizzanti siano al centro delle discussioni delle echo chamber. Ciò non vuol dire negare l’importanza sociale del fact checking, ma assumere la consapevolezza che la complessità è il segno distintivo dei nostri tempi e che non esiste forma di controllo diretto o indiretto; men che meno di censura a priori dei contenuti da veicolare. Più utile, invece, provare ad abbandonare le proprie stanze e le dinamiche di contrapposizione che sono quelle che definiscono anche il debunking – notizie false versus notizie vere – per non rischiare di alimentare meccanismi di polarizzazione comunicativa ugualmente distorsivi.

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