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Ci sono 57 morti in appena una settimana: 44 a Istanbul sabato 10 dicembre, 13 ieri a Kayseri. Dall’inizio del 2016 sono oltre 200. La Turchia sembra entrata in tunnel dal quale non sa uscire e che il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, sta usando per fare pressioni sulla Russia di Vladimir Putin e avere ancora più carta bianca nella lotta ai curdi siriani dello Ypg oltre confine.

La questione curda si trascina da decenni e come tutti i grandi problemi complessi non basta certo un’analisi per spiegarla nella sua interezza. Possiamo però dire che negli ultimi dieci anni ha attraversato diverse fasi. Da una parte c’è il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione terroristica, e l’altra lo Stato turco. Come tutti gli organismi complessi, anche il Pkk è formato da correnti che ne hanno determinato le politiche e le decisioni nel corso del tempo e che vanno da chi vorrebbe abbandonare la lotta armata o proseguire unicamente sulla via politica a chi come i Tak, i Falchi per la libertà del Kurdistan, secondo molti ormai autonomi dal Pkk, pensa che le armi siano l’unica soluzione. Dall’altra c’è uno Stato, quello turco, che a causa anche di un’identità nazionale impressa a forza e della storia recente della Repubblica turca (e quindi forse anche di una immaturità come stato nel gestire questioni così complesse) ha sempre visto nel popolo curdo e nelle sue rivendicazioni una minaccia all’unità territoriale.

Dal 1980, ci sono stati tanti attentati sul modello di quello di Kayseri, raramente balzati agli onori delle cronache internazionali, ma che hanno provocato centinaia di morti nelle forse dell’ordine turche. Spesso militari di leva, non di rado proprio di etnia curda. Giovani che lasciavano madri, mogli, fidanzate e figli.

Dal 2011 al 2013 sembravano essersi aperti concreti spiragli per una soluzione pacifica e politica della questione curda, con l’allora premier Erdogan che aveva intavolato una vera e propria road map con la mediazione niente meno che di Abdullah Ocalan, leader spirituale indiscusso dei curdi di Turchia. Il risultato era stato un cessate il fuoco prolungato e decine di militanti del Pkk che erano rientrati dai territori siriani e iracheni, con l’intenzione di abbandonare la lotta armata.

Poi però è successo qualcosa. Dopo la repressione della protesta di Gezi Parki, Erdogan ha attuato una morsa sempre più stingente sulle libertà individuali in Turchia, tali da vanificare in breve tempo le riforme fatte negli anni precedenti. Nel 2014, durante le elezioni alla presidenza della Repubblica, Erdogan si è accorto che per la prima volta si stava affacciando un leader che non avrebbe mai potuto nuocere direttamente alla sua popolarità, ma che avrebbe potuto fare perdere consensi all’Akp in alcune zone del Paese: Selahattin Demirtas. Il giovane leader curdo, meno di un anno dopo si è reso protagonista di un miracolo. Alle elezioni politiche del giugno 2015 fece addirittura perdere la maggioranza assoluta all’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che Erdogan guida e che dal 2002 è alla guida del Paese. Contemporaneamente, si è iniziato a parlare di Stato Islamico, che ha iniziato a colpire sì il territorio della Mezzaluna, ma soprattutto nelle zone a maggioranza curda oppure in manifestazioni organizzate dall’Hdp. Circostanze che hanno avvalorato la tesi secondo la quale, almeno per un periodo, Ankara abbia stretto un patto con quello che per tutta la comunità internazionale era il diavolo.

La parte più intransigente del Pkk ha colto la palla al balzo e dal luglio 2015 la Turchia è sotto attacco, ora dai terroristi separatisti, ora dallo Stato Islamico, con cui la collaborazione è finita a partire dalla lotta per il controllo sulla città di Mosul. In mezzo ci sono milioni di persone e quella parte dell’Hdp fra cui Demirtas, che ora si trova in galera insieme con altri otto parlamentari e che sperava di poter risolvere la questione curda per via politica. La giovane promessa della politica curda si è praticamente trovata stretta fra Erdogan e i separatisti. In modo diverso aveva iniziato a dare fastidio a entrambi.

Al Capo dello Stato questa situazione fa apparentemente solo comodo. Il presidente della Repubblica ha la scusa non solo per mantenere attivo lo stato di emergenza, in vigore ormai dal fallito golpe dello scorso luglio, ma anche per battere i pugni con Mosca. Il 27 dicembre a Mosca si inizierà a discutere del dopo Aleppo. Erdogan potrebbe anche rinunciare alla deposizione del presidente Bashar Al-Assad, ma in cambio vuole ancora più libertà nel colpire i curdi siriani oltre confine.

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