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I poteri del presidente degli Stati Uniti non sono illimitati. Tantomeno in materia di commerci. In linea di diritto le minacce di Donald Trump nei confronti di Gm, rea di produrre in Messico una modesta parte delle Chevy Cruze vendute sul mercato statunitense (solo 4.500 contro le 190mila in arrivo da fabbriche sul suolo Usa) non sembrano temibili. La legge del 1974 cui si può appellare Trump, spiegano i giuristi, può essere applicata solo contro gli Stati, non su una singola azienda. Per quanto riguarda le possibili ritorsioni doganali, Trump potrebbe sollevare le clausole della nazione più favorita, con tariffe più elevate del 4%. Per un provvedimento più robusto, cioè un aumento dei dazi fino al 15%, la Casa Bianca dovrebbe adottare un provvedimento d’urgenza, con una durata massima di 100 giorni. Altre iniziative possono essere adottate solo con un complesso e incerto iter parlamentare. Una tassa sull’import del 35%, come ipotizzato dal neo presidente, potrebbe essere applicata solo dopo una profonda riforma del Codice fiscale Usa.

Le pistole del presidente, dunque, sono scariche. Ma sia Gm che le altre corporation le prendono sul serio. Il motivo? Il favore politico di cui gode il neo presidente che con la sua mossa anti-Gm e la resa senza condizioni di Ford che ha rinunciato a un investimento messicano pianificato da tempo si è tra l’altro guadagnato un ampio consenso presso il sindacato dell’auto, l’Uaw, uno dei pilastri del partito democratico. Inoltre, su un punto sono tutti d’accordo: Trump non è un ingenuo, semmai un giocatore di poker che finora si è mosso solo dopo aver valutato con attenzione (e qualche aiuto disinvolto, accusa la Cia) le carte in mano alla concorrenza. E i moniti lanciati contro i big di Detroit non fanno eccezione, sostiene Doug Holtz-Eakin, già direttore dell’ufficio del bilancio del Congresso, oggi alla testa di American Action Forum di Washington, un centro lobbistico di destra. “Il neo presidente – ha detto a Bloomberg – non ha lanciato un ultimatum, semmai ha aperto un negoziato”.

Il fronte delle trattative è senz’altro molto ampio. Trump, consapevole del valore economico e psicologico dell’industria dell’auto, la vera bandiera di “America great again”, punta a un successo in grado di rafforzare la sua credibilità nei confronti dell’opinione pubblica, soprattutto in quegli Stati, Michigan in testa, che hanno permesso il sorpasso nei confronti dei democratici. L’industria dell’auto mira ad abbassare il salasso previsto dalle normative anti-inquinamento approvate in sede Epa, che vanno ad aggiungersi alle leggi adottate dagli Stati più severi, come la California. Per non parlare delle sfide future, tutte da decifrare: dall’accoglienza dell’auto a guida automatica all’avanzata del car sharing e nelle mille possibili evoluzioni che chiamano in causa l’attività dei regulators.

Non è difficile immaginare, in questa cornice, che prima o poi l’industria e Washington trovino un terreno comune d’azione, probabilmente meno ingenuo e pasticciato dei proclami di questi giorni. Di qui a pochi anni, probabilmente, l’auto assomiglierà sempre di più a un computer assemblato con un numero di pezzi minore dell’auto di oggi, ma assai più sofisticati. Le grandi fabbriche delle tute blu, piaccia o non piaccia a Trump, sono destinate a lasciare il posto a stabilimenti più piccoli e flessibili, popolati di macchinari 3D. E la disputa sulle 4.500 Cruze messicane che hanno varcato il Rio Bravo provocando l’ira di Trump ha fatto passare in secondo piano l’ingresso di Intel in Here, la cassaforte delle mappe virtuali controllate dai tre big tedeschi che avrà un enorme valore strategico con l‘avvento dell’auto a guida autonoma.

La sensazione è che si viva uno strano sdoppiamento tra l’economia così come viene letta con le lenti del populismo e la realtà della tecnologia che per sua natura non conosce passaporti. A Trump, con i suoi tweet e la sua capacità di sorprendere, l’onere di conciliare nel tempo le due sfere. Che ruolo può giocare in questa realtà Fiat Chrysler? Il caso ha voluto che l’affondo di Trump sia coinciso con la presentazione a Las Vegas di Portal, la concept car del gruppo a guida autonoma ed elettrica. Un modello per i millennial è il messaggio della casa: tre file di sedili, lo spazio sufficiente per utilizzare l’auto al di là di un mezzo di trasporto, grazie a U connect, molto più di un navigatore. È un prodotto pensato per il mercato Usa che in questi mesi regala solo preoccupazioni a Sergio Marchionne, visto il calo a doppia cifra delle vendite arrivato al terzo mese consecutivo. Colpa dell’aumento dei tassi, che colpisce gli acquisti a rate, ma anche delle nuove regole sulla contabilità delle vendite (dopo un’indagine federale) e della cattiva immagine, che torna a turbare oltre oceano la reputazione di Fca.

Gli analisti guardano con diffidenza sia al debito sia al costo degli investimenti in Nord America, dove alcune piattaforme risalgono ancora alla gestione Daimler di Chrysler. Ma molti consigliano l’acquisto dei titoli della casa. Il motivo? Dopo esser stata salvata da Barack Obama, Chrysler può essere un jolly prezioso per il presidente repubblicano che avrebbe molto da guadagnare in un merger tra Fca e Ford oppure con Gm, che ha già respinto con sdegno le avance di Marchionne. Ma i tempi sono cambiati: super Sergio tra poco più di un anno potrebbe lasciare la guida di Fca, Exor si accontenterebbe volentieri di un ruolo gregario in una grande realtà a stelle e strisce. E Trump potrebbe rivendicare, magari con uno sconto fiscale, un passo in avanti sulla strada per rendere l’America greater again.

 

trump Sergio Marchionne

Vi racconto le sterzate di Donald Trump con GM, Ford e FCA

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