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La battaglia di Al Bab finirà presto, ha detto nel primo discorso pubblico dopo l’attentato del Reina il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Negli ultimi cinque giorni le forze turche (un mix di uomini delle forze speciali e ribelli siriani moderati) hanno intensificato le operazioni sulla roccaforte siriana dello Stato islamico, ritenuta tra le altre cose uno dei centri logistici per gli attentatori che hanno colpito all’estero, dunque forse anche in Turchia – in quell’area il 30 agosto è stato ucciso l’importante leader dell’organizzazione Abu Mohammed al Adnani, il portavoce e capo dell’Emni (o Amni), il braccio che conduce le operazioni esterne dell’IS, anche quelle in Europa.

Le attività militari fanno parte dell’operazione Scudo, e da inizio gennaio sono state sostenute anche dai bombardamenti aerei russi, nell’area meridionale della città. Della partnership russo-turco si è molto parlato, meno s’è detto dell’inizio di questa fase operativa armata, che di fatto è un cambiamento di programma non indifferente, che però permette a Turchia e Russia di trasmettere il messaggio che il loro primario impegno in Siria è combattere i baghdadisti; anche se è noto che i primi vogliono fermare i curdi siriani ritenuti un germe pericoloso per gli equilibri interni, gli altri vogliono aumentare la propria sfera di influenza regionale e globale puntellando il regime amico.

La Turchia è anche uno dei principali alleati americani nella regione mediorientale e tra l’altro è nominalmente membro della Coalizione a guida Usa che combatte lo Stato islamico in Siria e Iraq. Ankara nei giorni passati però ha avuto un atteggiamento piuttosto scocciato nei confronti di Washington, accusato di non partecipare alle operazioni della Scudo e così due giorni fa si sono alzati tre F16 dalla base aerea di Incirlik, nel sud della Turchia, per un volo radente sopra i baghdadisti ad Al Bab. Ma non hanno bombardato: “È stata una dimostrazione di forza, piuttosto che un attacco” ha detto il portavoce del Pentagono Peter Cook. Un contentino che ha indispettito ancora di più il governo turco, che di lì a poche ore ha fatto uscire un messaggio del ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu tramite l’agenzia stampa statale Anadolu in cui minacciava gli Stati Uniti che se non avessero iniziato a fare qualcosa ad Al Bab, avrebbero smesso di concedere l’uso di Incirlik – che è una base nucleare Nato ed è vitale per la funzionalità tattica dei bombardamenti contro lo Stato islamico (accorcia i tempi di reazione e abbassa i costi di missione).

L’amministrazione Obama si chiude con i rapporti ai minimi con Ankara, che non gradisce non tanto il disimpegno sulla Scudo, ma il fatto che questo coincida con il forte impegno preso dagli americani a sostegno di curdi siriani, boots on the ground statunitensi per una missione lanciata su un’altra roccaforte siriana dell’IS, Raqqa, centinaia di chilometri più a Est, ma considerati dalla Turchia dei terroristi alla stregua del Pkk. Le minacce turche hanno però anche come fine alzare la posta su un obiettivo che ha un nome e cognome: Fetullah Gülen, l’ex guida spirituale amica dell’Akp ora considerato un nemico esistenziale colpevole del tentato golpe di luglio, rifugiatosi in Pennsylvania e che Erdogan vorrebbe estradato per punirlo. L’obiettivo potrebbe essere a corto raggio: prendere Al Bab e costruirsi una credibilità entro il 20 gennaio, data in cui Donald Trump entrerà alla Casa Bianca, per poi sfruttare la volontà annunciata dal presidente eletto di collaborare con la Russia su molte delle faccende mediorientali, trovarsi già allineati e col credito di aver sconfitto l’IS su un’ampia fetta di territorio e magari ottenere in cambio Gülen.

Perché Al Bab è il centro (anche politico) della guerra in Siria

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