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Ogni volta che entro o solo mi affaccio all’auletta dei gruppi parlamentari alla Camera, appena usata per la conferenza stampa di fine anno anche dal nuovo presidente del Consiglio, mi viene il magone. Sento come un nodo alla gola pensando che proprio in quell’ambiente, fra quelle pareti, prima che un costoso restauro non rendesse tutto più moderno e lucente, si concluse il 28 febbraio del 1978 la carriera politica di Aldo Moro. Alla cui memoria si sarebbe fatto meglio a dedicare questo emiciclo, piuttosto che la sala ugualmente prestigiosa, per carità, scelta nel piano nobile del palazzo di Montecitorio, dove magari Moro non ebbe mai modo di mettere piede.

La sera di quel 28 febbraio l’allora presidente della Dc vi arrivò febbricitante per un’influenza dalla quale però non aveva voluto farsi trattenere per l’importanza che aveva l’incontro programmato con i deputati e i senatori del suo partito, attraversati da molte incertezze e paure per la conclusione alla quale proprio Moro aveva indirizzato una lunga crisi di governo.

Si trattava di convincere colleghi di destra, o quasi, come Oscar Luigi Scalfaro e Mario Segni, e di sinistra come Carlo Donat-Cattin, che era meglio un accordo più stringente e visibile col Pci di Enrico Berlinguer, consentendogli di passare dall’astensione al voto di fiducia al governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti, e perciò chiamato monocolore, piuttosto che tornare ad imboccare, come due anni prima, la strada  testimoniale – la definì Moro- delle elezioni anticipate. Da cui i due maggiori partiti, secondo il presidente della Dc, avrebbero potuto uscire entrambi più forti ma ugualmente incapaci di governare rispettando il loro carattere elettoralmente alternativo, perché entrambi sarebbero cresciuti ai danni dei partiti minori, e tradizionalmente alleati più dei democristiani che dei comunisti.

Moro pensava soprattutto al Psi, proprio da lui portato al governo nel 1963 e distaccatosi dalla maggioranza all’inizio del 1976, di nuovo con Moro a Palazzo Chigi, per l’impegno suicida dell’allora segretario Francesco De Martino di non tornarvi più senza la partecipazione o l’appoggio anche dei comunisti.

Ciò aveva portato il Psi al livello elettorale più basso della sua storia, da cui il giovane Bettino Craxi, succeduto all’anziano De Martino, si era proposto di sollevarlo restituendogli autonomia e agilità. Ma il nuovo segretario socialista in quell’inizio del 1978 aveva ancora bisogno di tempo per completare l’inversione ad U. E Moro ritenne che fosse utile darglielo, piuttosto che fargli rischiare un altro bagno elettorale.

Fu questo il senso del discorso di Moro quella sera, anche se non esplicitato così chiaramente per non compromettere la tregua col Pci di cui non solo la Dc ma tutto il Paese aveva bisogno nella tragica morsa in cui si trovava: fra una crisi economica e finanziaria durissima  e un terrorismo galoppante. Lo stesso Moro ne avrebbe fatto purtroppo le spese dopo due settimane col suo sequestro per mano delle brigate rosse fra il sangue della scorta sterminata in via Fani.

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Alla luce di questi ricordi voi capirete il senso quasi di estraneità che ho provato sedendomi in quella auletta per ascoltare Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio da soli 15 giorni, reduce dalla nomina dei sottosegretari e dal l’approvazione del solito decreto delle cosiddette mille proroghe, ma soprattutto impossibilitato a fare un bilancio perché proiettato solo sul futuro. Che però per lui e per il suo governo è quanto meno anomalo, potendo finire già a giugno, con le elezioni anticipate, o al massimo, ma proprio massimo, fra poco più di anno, quando scadrà improrogabilmente questa diciassettesima -ahi- legislatura. A meno che il conte marchigiano Gentiloni Silverj, a dispetto della sua aria simpaticamente paciosa, non perda la testa e faccia la guerra a San Marino, essendo appunto lo stato di guerra l’unica condizione per la quale si può strappare al presidente della Repubblica la proroga delle Camere in scadenza.

Ma il nostro conte non sembra proprio un tipo da perdere la testa. Al contrario, è uno con i piedi ben piantati per terra, consapevole delle circostanze davvero fortuite che lo hanno portato a Palazzo Chigi, spintovi dal predecessore e tuttora segretario del suo partito Matteo Renzi. Di cui Gentiloni ha raccolto tanto volentieri, e tanto convinto, l’eredità da essersene vantato ogni volta che qualche giornalista più o meno malizioso ha cercato con le sue domande non dico di provocarlo, ma di fornirgli l’occasione di prendere le distanze dal grande assente, che pure incombeva lo stesso sulla scena: Renzi, appunto.

La risposta più breve -il monosillabo NO- è stata fornita da Gentiloni, facendo rimanere di stucco anche il conduttore della conferenza stampa, il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Enzo Iacopino, a chi gli aveva chiesto se non si fosse sentito a disagio quando il predecessore volle così fortemente la tanto contesta legge elettorale della Camera, chiamata Italicum e ora all’esame della Corte Costituzionale, ricorrendo al voto di fiducia.

Altrettanto secche sono state le risposte del conte in difesa della renzianissima Maria Elena Boschi, ora sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, e degli amici di Renzi sbattuti come mostri, o quasi, in prima pagina dal solito Fatto Quotidiano per la vicenda giudiziaria della Consip e delle microspie degli inquirenti rimosse prima che facessero troppi danni.

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Potrò sbagliare, ma accetto scommesse sulla mia convinzione che saranno inutili le speranze e i tentativi, fuori e dentro il Pd, di mettere Gentiloni contro Renzi vuoi per fare melina sulla riforma elettorale, allo scopo di ritardare il ricorso alle urne, vuoi per fare comunque durare sino alla fine ordinaria questa legislatura che, già sfigata di suo, è stata terremotata, come la terra proprio del conte, dalla scossa del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.

Molti dei fautori del no referendario – a cominciare da Silvio Berlusconi, oggi il più interessato a tirarla per le lunghe anche per spuntare il ritorno al vecchio sistema proporzionale, che lo affrancherebbe dalla scalata, o assedio politico, del leghista Matteo Salvini- pensavano di essere così bravi, o furbi, da poter rianimare con il loro fiato la legislatura dopo averle scavato la fossa.

C’era addirittura chi -da Stefano Parisi a Massimo D’Alema- aveva assicurato che, bocciata la riforma di Renzi, si sarebbe potuta eleggere in quattro e quattr’otto un’Assemblea Costituente o fare approvare da queste stesse Camere una nuova riforma. Poveri illusi. O mistificatori, come preferiscono dire i pessimisti.

Paolo Gentiloni

Vi racconto la tosta flemma di Paolo Gentiloni

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