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Gli anni passano, ma l’Italia continua a rimanere ostaggio del nimby, la sindrome dal nome anglosassone (Not in my back yard, letteralmente non nel mio cortile) ma dalla cultura tutta italiana, che attanaglia l’economia mediante una miriade di micro-contestazioni verso piccoli e grandi infrastrutture in nome della tutela del territorio. Il risultato sono opere, magari anche utili come ferrovie o gallerie, bloccate sul nascere con conseguente fuga degli investitori. E pazienza se tutto si traduce in perdita di Pil e posti di lavoro. Ad aggiornare il conto salato del fenomeno ci ha pensato ancora una volta il Nimby Forum, promosso dall’agenzia Allea, che ieri sera a Roma ha presentato il suo annuale rapporto.

(CHI C’ERA ALL’EVENTO SECONDO UMBERTO PIZZI. LE FOTO)

PIÙ PROTESTE, MENO ECONOMIA

C’è un dato che più di di tutti deve far riflettere, quello relativo alle proteste sorte nel corso del 2015 e che l’anno prima non c’erano. Lo scorso anno le contestazioni locali sono aumentate del 22% sul 2014, 111 proteste contro le 91 del 2014, mentre le opere oggetto delle proteste sono diminuite del 3,5%. Un controsenso? Assolutamente no, e il motivo è presto spiegato. Molte delle imprese che stavano tentando di realizzare questa o quell’opera, hanno spiegato dal Nimby Forum, hanno gettato la spugna e lasciato perdere il progetto, magari spostandolo in un altro paese. Chi invece è rimasto e continua a provarci si trova davanti un fuoco di sbarramento quasi automatico. E così, a tenere ingessata l’economia, ci sono 342 opere finite sotto il tiro dei comitati locali. Colpa di una scarsa cultura dell’economia e dell’innovazione mascherata da ambientalismo? Forse. Una cosa è sicura però, sul banco degli imputati ci sono anche i partiti.

PARTITI&NIMBY

Non è una novità che le proteste locali trovino una sponda preziosa nei partiti, piccoli o grandi che siano. Una connessione che sembra rafforzarsi ogni anno di più. “Emerge il ruolo di assoluta centralità della politica nell’alimentare e sostenere le contestazioni: movimenti partitici locali ed enti pubblici sono il motore del no”, dicono dal Forum, nel quale si è sottolineato come nel 45,6% dei casi censiti, dietro una protesta si nasconda una formazione politica a fomentare la collettività, anche ricorrendo ai social network, una delle armi preferite della sindrome nimby. Ma quali sono i comparti che piacciono meno?

(CHI C’ERA ALL’EVENTO SECONDO UMBERTO PIZZI. LE FOTO)

CHI PIACE E CHI (NON) PIACE

Tra quelli più contestati ci sono i progetti legati all’energia e rifiuti. Termovalorizzatori e biodigestori infatti rappresentano rispettivamente il 10,5 e il 16,9% delle opere contestate. Il solo comparto spazzatura ha registrato nel 2015 un aumento delle proteste dell’11,8% sull’anno prima. La sorpresa però è un’altra e riguarda le energie rinnovabili. Per la prima volta dall’inizio dei monitoraggi, correva l’anno 2004, il fotovoltaico registra zero impianti contestati. Certo, hanno chiarito dal Forum, molto si deve al drastico calo degli investimenti (-31% nel 2015) ma che comunque è un buon segno.

UN PROBLEMA (ANCHE) DI GIUSTIZIA

Ma non c’è solo la politica, spesso miope, e una cultura dell’ambientalismo che mal sopporta il progresso alla base del nimby. A volte ci si mette anche la giustizia, precisamente quella amministrativa, come raccontato ormai un anno fa da Formiche.net. Sentenze che, sposando la causa del territorio, danno vita a pericolosi precedenti in grado di creare un contesto giuridico favorevole al fenomeno. Lo sa bene Filippo Patroni Griffi, presidente aggiunto del Consiglio di Stato, intervenuto al convegno, per il quale il giudice amministrativo “può evolvere culturalmente, acquisendo una maggiore consapevolezza degli effetti di sistema, specie economici, delle sue decisioni”.

(CHI C’ERA ALL’EVENTO SECONDO UMBERTO PIZZI. LE FOTO)

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