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Ci sono almeno due misure per rendere, se non interamente comprensibile, almeno palpabile i risultati delle presidenziali in Usa e soprattutto il principale, il più detonante: la sorpresa. Un esito così non l’aveva previsto nessuno, tranne una scimmia cinese cui è stato messo in mano un cartello e offerta la scelta fra i ritratti dei due candidati e che si è diretta senza esitare verso l’immagine di Donald Trump e l’ha baciata. L’aneddoto probabilmente rimarrà come illustrazione della sorpresa generale.

Però c’era anche un precedente umano, inerente e storico: le elezioni presidenziali del 1948. L’inquilino della Casa Bianca era il democratico Truman, che ci era arrivato a causa della morte del presidente Roosevelt ed era considerato un provvisorio. Favoritissimo era il candidato repubblicano Dewei, all’unanimità o quasi: i sondaggi, così unanimi anche quelli che appena aperte le urne un autorevole quotidiano uscì col titolo a tutta pagina «Dewei sconfigge Truman». Accadde esattamente il contrario e adesso quella prima pagina è un inglorioso cimelio nello studio di molti direttori di quotidiani. Per un bis si dovettero aspettare 68 anni. L’unanimità delle previsioni era solida quanto la unilateralità degli auspici. Su 74 istituti di sondaggio, due soli azzardarono la previsione su un testa a testa tra Hillary Clinton, moglie di presidente, padrona della «macchina» del Partito democratico e appoggiata dall’establishment e Trump, debuttante a 70 anni del mondo della politica, impresario di alberghi di lusso e case da gioco, finanziere un po’ avventuriero, impresario di concorsi di bellezza femminile, miliardario ma molto meno di quanto si vanti di essere, conduttore di una trasmissione dal titolo poco augurale di «Sei licenziato». E famoso anche come estimatore appassionato dell’altro sesso, definito ed esaltato in termini spesso tutt’altro che riguardosi.

Nessuno si aspettava di vederlo in campo e, quando si presentò, nessuno o quasi ne tenne conto nell’esame delle primarie repubblicane. Aveva 16 concorrenti e in qualche mese li distrusse tutti e fu promosso alla finale contro Hillary Clinton. Contro di lui si creò quasi una Santa Alleanza dalla macchina del Partito democratico alle preferenze marcate dell’establishment finanziario, delle varie burocrazie, con l’appoggio di tutti i gruppi politici, economici ed etnici e le spregiudicate affermazioni di Trump avevano irritato o addirittura disgustato: afroamericani, latini e donne che vedevano l’occasione di portare alla sommità del potere una di loro; un gusto accresciuto dalla soddisfazione di sconfiggere un maschilista confesso, inveterato e neppure velato, autore di pubbliche sconvenienze verbali anche in diretta tv. Doveva bastare, anzi soverchiare. Al punto che le debolezze dell’uomo finirono col cacciare nell’ombra il significato e le conseguenze delle sue discutibili tesi politiche.

Perfino le donne hanno votato sì in maggioranza per Clinton, ma senza il record segnato quattro e otto anni prima nell’appoggio a Barack Obama. Hanno segnato un record, invece, gli elettori di origine latinoamericana, che Trump aveva sfidato promettendo di costruire un gigantesco muro alla frontiera col Messico. Gli sono state fatte pagare perfino le effusioni per Vladimir Putin, prodrome forse di una «riconciliazione» su base personale. Si è arrivati alle urne che tutti avevano espresso in termini molto espliciti tutti i motivi per cui era impensabile votare Trump. Si erano sbagliati. Il motivo del loro errore è forse semplice anche se importante: gli avversari di Trump avevano sottovalutato il malumore dell’americano medio, evidente da anni. Avevano provveduto a dimenticare che salari e stipendi sono fermi da più di vent’anni e che il ceto medio sta perdendo potere d’acquisto, fiducia nel futuro e buon umore. Il voto per Trump si può spiegare e riassumere in una sola parola: rabbia. Rabbia che è più di malcontento e che alimenta il fenomeno politico definito dagli avversari «populismo». Non solo in America. Lo si ritrova sempre più spesso anche nelle nostre urne europee.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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