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Negli ultimi anni, i rapporti tra Israele e Stati Uniti hanno vissuto cambiamenti radicali dovuti alla natura dell’amministrazione Obama e alla coalizione governativa israeliana. Tali cambiamenti sono stati profondamente influenzati dall’instabilità in Medio Oriente, a partire dallo scoppio delle primavere arabe. I primi momenti della presidenza Obama si contraddistinsero per il desiderio di ravvivare il processo di Oslo, spentosi nel 2001 dopo la seconda Intifada e gli eventi dell’11 settembre. Nel famoso discorso del Cairo, Obama presentò la nuova visione del mondo arabo e dei Paesi islamici, promettendo pressioni sul governo di Gerusalemme perché offrisse concessioni e congelasse gli insediamenti in Cisgiordania. Eppure, la realtà mediorientale è oggi enormemente diversa rispetto a questa visione.

L’idea che la causa palestinese fosse motivo di instabilità regionale e che gli insediamenti fossero un serio handicap per la stabilizzazione del Medio Oriente, si spense di fronte allo scoppio di moti rivoluzionari e contro-rivoluzionari in tutta la regione. L’amministrazione Obama è sembrata perdere contatto con gli eventi. Lo stesso Obama è diventato oggetto di disprezzo nel mondo arabo per il fallimento nel comprendere la profonda natura dei conflitti etnici e religiosi e per l’ingenuità nel sostenere l’idea di ibridismo culturale come elemento portante dell’ordine mondiale. Il presidente non poteva immaginare la profonda trasformazione del Cairo dopo la caduta di Mohamed Morsi. Ha poi fallito miseramente in Libia, ma ha fallito soprattutto in Siria, dove il caos e i frantumi di un intero Paese hanno mostrato la postura americana in Medio Oriente. In tale realtà, il presidente Usa ha spostato la propria attenzione verso il programma nucleare iraniano e il caso palestinese, come a voler raccogliere un qualche dividendo da una ragione che offriva solamente carneficine.

A Gerusalemme, il governo Netanyahu ha evidenziato il fallimento di Obama e ha provato a convincere Washington a una maggiore cautela nel dialogo con l’Iran, considerato primo sponsor del terrorismo, e con i palestinesi, secondo lui non pronti a sottoscrivere una soluzione a due Stati. L’acrimonia tra Gerusalemme e Washington è continuata, mentre allo stesso tempo la cooperazione militare e il dialogo di intelligence hanno raggiunto livelli maggiori di intensità. Mentre Washington, dopo i tredici viaggi di John Kerry a Gerusalemme e Ramallah alla ricerca di una formula magica per la pace israelo-palestinese si ritrovava frustrata dallo scetticismo e della mancanza di cooperazione di Gerusalemme, Netanyahu vedeva in Obama e Kerry i leader della fictional reality. I palestinesi aspettavano con fiducia una rottura tra Gerusalemme e Washington.

Eppure l’alleanza israelo-americana sulle questioni strategiche si è rafforzata, nonostante l’antipatia tra Netanyahu e il presidente americano. Obama vedeva nel leader israeliano un nazionalista rabbioso, non disposto a scendere a compromessi; Netanyahu vedeva nel presidente americano un leader ingenuo, incapace di cogliere le sfide e le realtà sul terreno. Così, l’arroganza di Gerusalemme e la miopia di Washington si sono scontrate e nutrite a vicenda fino a danneggiare i rapporti. Quando Netanyahu ha cercato direttamente il sostegno del Congresso contro lo storico accordo con l’Iran, ha provocato una grave rottura tra la presidenza e il Partito democratico.

Persino gli ebrei americani si sono divisi. La costernazione personale di Obama nei confronti del primo ministro israeliano ha causato l’indebolimento emotivo delle relazioni bilaterali. Anche se Obama ha promesso di non usare mai l’Onu come leva contro Tel Aviv, alleato più fidato degli Stati Uniti in Medio Oriente, dopo le elezioni del 2016 ha spinto in favore della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro Israele: una vera tragedia. L’amministrazione Obama ha cementato nelle menti degli israeliani un’eredità di ostilità nei confronti dello Stato ebraico, mentre Netanyahu è diventato la nemesi delle forze democratiche e progressiste americane. Il fatto che Israele abbia perso tanto della sua posizione nel Pd americano è pericoloso per il futuro.

L’ascesa di Trump al potere potrebbe cambiare positivamente l’atmosfera verso Gerusalemme. Non si dovrebbero però sottostimare i danni provocati negli ultimi anni all’alleanza tra Israele e Stati Uniti. Gli avversari statunitensi di Trump lo considerano un presidente illegittimo, e potrebbero individuare in Netanyahu e nel governo israeliano gli alleati del loro rivale nella lotta per la definizione del futuro americano. Israele deve stare molto attento a non alienarsi i propri amici negli Stati Uniti, gli stessi che hanno a lungo resistito spalla a spalla con lo Stato ebraico nei momenti di difficoltà condividendo una visione di democrazia e pace.

Yossi Shain – docente di politica internazione presso Tel Aviv University e Georgetown University

Traduzione di Stefano Pioppi

Articolo pubblicato sul numero di Formiche di Febbraio

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