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Ha scritto Gianfranco Pasquino che “dopo trentacinque anni di dibattiti e almeno cinque riforme dei sistemi elettorali italiani, c’è ancora molto bisogno di spiegare, soprattutto in Italia, che cosa è un sistema elettorale, quante varietà ne esistono, come sono venute in essere, quali obiettivi perseguono e con quali criteri debbono essere valutati e, eventualmente, modificati” (Tradurre i voti in seggi, Lectio brevis all’Accademia dei Lincei, 11 marzo 2016).

Queste considerazioni dell’eminente politologo sono più attuali che mai. I partiti attendevano la sentenza della Consulta sull’Italicum come una sorta di novella del buon pastore, ma la pecorella smarrita della legge elettorale continua a vagare nel labirinto dei premi di lista o di coalizione, delle clausole di accesso o di esclusione, dei nominati dall’alto o degli unti dal basso. Secondo una pubblicistica a dir poco partigiana, tuttavia, gli italiani avrebbero la rappresentanza proporzionale nel loro codice genetico. Niente di più falso. Al contrario, nel Dna dei nostri avi paterni (quelli materni non godevano del diritto di voto) è impresso il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali, che ha caratterizzato le elezioni tenutesi dal 1861 al 1911. Beninteso, in virtù del suffragio ristretto ai ceti abbienti, la vittoria di un candidato invece di un altro non era allora motivo di scontri memorabili. La scena mutò drasticamente quando la società divenne di massa, e i fattori organizzativi e ideologici presero il sopravvento su quei fattori personali (lignaggio, censo, istruzione) che garantivano l’elezione dei notabili più in vista.

Come ha osservato Pasquino, troppo spesso vegono sottaciute le vere ragioni della svolta  proporzionalista in Italia. Oggi essa viene invocata anche per  impedire al M5s di salire a Palazzo Chigi. All’inizio del Novecento, Giovanni Giolitti la accettò temendo l’avanzata dei socialisti e dei popolari, che poteva tagliare l’erba sotto i piedi ai candidati liberali nei collegi uninominali. L’introduzione della proporzionale, prima annunciata insieme a un allargamento del suffragio, poi applicata per la prima volta nelle elezioni del 1919, aveva dunque un evidente intento difensivo. Verso la fine dell’Ottocento, anche in Gran Bretagna l’ascesa dei laburisti stava insidiando il potere dei conservatori e dei liberali, che fino a quel momento se lo erano spartito alternandosi al governo del paese. Dopo qualche titubanza, i conservatori respinsero qualsiasi riforma del sistema “plurality” (uninominale a un turno), altrimenti chiamato “first past the post”: il primo cavallo che supera il palo del traguardo ha vinto. Nei collegi, che sono appunto uninominali, vince il seggio chi ottiene la maggioranza relativa dei voti. Dopodiché, occorrerebbe ricordarlo alla Casaleggio Associati, cercherà di rappresentare non solo i suoi elettori, ma tutto il collegio per conquistare nuovi consensi.

Sarà uno svizzero, Ernest Naville (1816-1909), a diventare il padre nobile della dottrina proporzionalista nell’Europa ottocentesca. Nato a Chancy da una famiglia borghese di tradizioni conservatrici, si laureò in teologia a Ginevra dove fu consacrato pastore. Spiritualista convinto in un’epoca dominata dal positivismo, cominciò ad analizzare con scrupolo da scienziato sociale -“observer, supposer, vérifier”, era il suo motto- l’architettura istituzionale della patria di Calvino e le tensioni a cui era sottoposta, a causa di una legge elettorale maggioritaria che estrometteva le minoranze dal Gran Consiglio. Vista la sordità delle autorità cantonali a ogni richiesta di riforma del sistema elettorale, Naville fondò “La Réformiste”, un’associazione destinata a diventare un modello per tutti i  proporzionalisti del Vecchio continente. Naville dovrà però attendere ventisette anni per vedere premiata la sua instancabile iniziativa riformatrice. Il 6 luglio 1892, infatti, il Gran Cosiglio abrogò lo scrutinio maggioritario sostituendolo con quello proporzionale. Un mese dopo, i ginevrini furono chiamati a pronunciarsi sull’innovazione costituzionale. La sua approvazione non fu un plebiscito, ma segnò comunque uno spartiacque nella storia elettorale europea.

Anche il Belgio, come la Svizzera, era (ed è) attraversato da profonde divisioni di natura etnica e confessionale. La questione della rappresentanza delle minoranze divenne quindi ben presto cruciale. Dopo il suo battesimo come Stato autonomo (1830), si aprì un un lungo e vivace dibattito sull’estensione del suffragio e sulle distorsioni del sistema maggioritario in vigore. Finché nel 1878 un matematico e giurista, Victor D’Hondt, pubblicò un opuscolo che imprimerà una brusca accelerazione alla vicenda del proporzionalismo in tutto il pianeta, La Représentation Proportionelle des Partis par un Électeur. Senza entrare nei suoi tecnicismi, vi era descritto un metodo (in Italia sarà utilizzato per deteminare la ripartizione dei seggi nelle province e al Senato) che segnò la separazione definitiva tra rappresentanza personale e rappresentanza dei partiti. L’entusiasmo suscitato dalla formula  D’Hondt ebbe un peso rilevante nella rapida approvazione di una legge che, volta a combattere le frodi elettorali, abituò i belgi a votare segretamente su una scheda precompilata contenente i simboli di partito, nonché a esprimere una preferenza per i candidati della lista prescelta. L’obiettivo dello scrutinio proporzionale sulla base di liste concorrenti era ormai a portata di mano. Il 27 maggio 1900 il Parlamento belga, per la prima volta in Europa, fu rinnovato con questo sistema. Da quel momento in avanti, l’utopia divenne realtà. Una realtà  per giunta facilmente esportabile in una  fase storica nella quale i partiti di massa si apprestavano a soppiantare le vecchie formazioni notabilari. Dopo la riforma belga, nel corso di un ventennio praticamente tutti gli stati europei -eccetto l’Inghilterra- adottarono un sistema di tipo proporzionale.

Giovanni Sartori ha sostenuto che la proporzionale è la fotografia della frammentazione esistente nei partiti. Forse è più corretto affermare che le leggi proporzionali prive di qualsiasi soglia di accesso al Parlamento (o con soglie molto basse) favoriscono la frammentazione, come il caso italiano dimostra ad libitum, “non punendo le scissioni, ma rendendole praticabili. Quindi, mi sento di sostenere -conclude Pasquino- che l’esistenza di un sistema proporzionale non produce la frammentazione dei partiti, ma, a determinate condizioni, la permette e la facilita”. Chissà se i leader politici italiani, che in questi giorni stanno cercando l’ormai mitica omogeneizzazione delle regole elettorali di Camera e Senato, sapranno tenere conto di queste sagge parole.

Le sagge parole di Gianfranco Pasquino sulla proporzionale

Ha scritto Gianfranco Pasquino che "dopo trentacinque anni di dibattiti e almeno cinque riforme dei sistemi elettorali italiani, c'è ancora molto bisogno di spiegare, soprattutto in Italia, che cosa è un sistema elettorale, quante varietà ne esistono, come sono venute in essere, quali obiettivi perseguono e con quali criteri debbono essere valutati e, eventualmente, modificati" (Tradurre i voti in seggi,…

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