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A Donald Trump, i Bush gliel’hanno giurata: da quando, un anno fa, nei primi dibattiti fra aspiranti alla nomination repubblicana ridicolizzava un inconsistente Jeb, fatto presto fuori nelle primarie, l’unica famiglia dell’America tra XX e XXI Secolo ad avere dato al Paese due presidenti, padre e figlio, ha come minimo snobbato, se non boicottato, il magnate sceso in politica contro l’establishment conservatore.

George H.W. Bush, presidente dal 1989 al 1993, e il figlio George W., presidente dal 2001 al 2009, non hanno speso una parola in suo favore, né sono andati alla convention repubblicana di Cleveland a luglio, mentre Jeb se ne restava in Florida a curarsi le ferite nell’amor proprio.

Non stupisce, quindi, adesso, la notizia, anzi l’indiscrezione, che George, il patriarca dei Bush, si prepari a voltare le spalle al candidato del suo partito e a votare per Hillary Clinton. Lo riferisce Politico, citando una fonte di prestigioso lignaggio, Kathleen Hartington Kennedy Townsend, figlia di Robert F. Kennedy. La Townsend dice che l’ex presidente le ha rivelato le sue intenzioni, durante un colloquio.

Jim McGrath, il portavoce di George H.W. Bush, non ha confermato, ma neppure ha smentito, dicendo che l’ex presidente voterà come privato cittadino e non intende fare dichiarazioni in merito. George padre e l’ex first lady Barbara Bush si sono tenuti lontani dalla campagna elettorale, dopo essersi spesi senza successo per Jeb Bush, che tutti in famiglia consideravano destinato a correre per la Casa Bianca, mentre nessuno puntava un cent sul figlio maggiore, a lungo un buono a nulla.

I Bush non sono, del resto, i primi notabili repubblicani lontani da Trump, se non a voltare le spalle al partito. Mitt Romney, candidato repubblicano nel 2012, non ha mai dato il proprio endorsement al magnate e non s’è fatto vedere alla convention. John McCain, candidato nel 2008, ha un po’ mitigato le riserve su Trump, ma non lo vuole vedere in Arizona, il suo Stato, dove briga l’ennesimo rinnovo del suo mandato da senatore, perché teme gli faccia perdere voti fra gli ispanici.

Paul Ryan, speaker della Camera, per ora il repubblicano di maggior rango, ha con Trump una sorta di patto di non aggressione, ma non esita a criticarlo: l’invita, ad esempio, a pubblicare la cartella delle tasse e lo attacca sulle aperture di credito a Putin.

Senza contare gli ex, specie nell’area della politica estera e di sicurezza. Il generale Colin Powell, che fu consigliere per la sicurezza nazionale di Bush padre e segretario di Stato di Bush figlio, considera Trump “una disgrazia nazionale”. Paul Wolfowitz, uno dei leader dell’area neo-con, lascia intendere che potrebbe votare Hillary, “turandosi il naso”. Intervistato da Der Spiegel, l’ex consigliere e collaboratore di Bush figlio, ed ex presidente della Banca Mondiale, bolla Trump come “una minaccia alla sicurezza nazionale”.

Ma l’America 2016 pare un Paese poco incline a dare ascolto a “grandi vecchi” e a “intellettuali della politica”. E’ un Paese a mano armata, dove circolano 265 milioni di strumenti letali: in media, oltre uno per ogni cittadino maggiorenne, 73 milioni in più di una ventina di anni fa. Sono i dati che escono da una ricerca universitaria.

Come la ricchezza dell’America è concentrata in poche mani, anche lo armi lo sono: un 3 per cento di adulti ne possiede quasi la metà del totale, un arsenale di 130 milioni di esemplari, una media di 17 a testa. Il 22 per cento dell’intera popolazione, una settantina di milioni di persone, possiede almeno un’arma: dato in calo, ma ancora impressionante.

Su questo sfondo, l’ennesima gaffe della famiglia Trump passa quasi inosservata. Donald jr, che segue le orme del padre sul “politicamente scorretto”, e che aveva già evocato le camere a gas dell’Olocausto, ora paragona i rifugiati siriani a caramelle avvelenate. E’ polemica sul web, ma che cambia?

(post tratto dal blog di Giampiero Gramaglia)

George W. Bush

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