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Di difesa comune europea si discute ormai da 70 anni, così come della sua premessa: l’unione politica, cioè della creazione di un vero Stato europeo, federale o confederale. Nessuno contesta il fatto che solo esse siano necessarie per mettere il Vecchio Continente in grado di giocare un ruolo globale. Gli Stati europei sono troppo piccoli per poterlo fare anche con cooperazioni rafforzate permanenti. Nessuno nega neppure il fatto che l’Europa, per divenire una potenza che conti sul destino del mondo – ruolo a cui ambisce e a cui non può rinunciare – debba compiere una “rivoluzione culturale”, per recuperare – nell’attuale mondo instabile e imprevedibile in cui è tornata la possibilità di guerra fra le grandi potenze – la cultura dell’uso della forza, della politica di potenza e dell’hard power e dotarsi delle istituzioni e degli strumenti operativi e dissuasivi indispensabili per tradurre in realtà le proprie ambizioni.

Oggi in Europa domina il soft power. Senza un adeguato hard power non è sufficiente. Si riduce a semplici chiacchiere. Gli Stati europei forse pensano che basti. Sono stati indotti a tale declino globale, soprattutto nel campo della sicurezza, ma non solo, dalla protezione strategica della “dissuasione estesa” americana e dal sistema liberal-democratico e di libero mercato imposto dagli Usa. Questi ultimi sono stati i veri garanti di una certa unità fra i riottosi Stati europei, che hanno anche scelto di dipendere dagli Usa per il progresso tecnologico che la ricerca e sviluppo e la produzione di armamenti sofisticati ha dato al sistema industriale americano.

Con la “nuova guerra fredda tecnologica ed economica” fra la Cina e gli Usa e con lo sviluppo industriale di altri paesi extra-europei – anche di quelli del “Sud Globale” sempre più contrapposti all’Occidente – e, soprattutto, con il minor affidamento sulla confortevole protezione americana con la Nato, nonché con il risorgere dell’imperialismo di Mosca e con l’espansione, per ora quasi esclusivamente economica, di Pechino anche nelle aree di diretto interesse strategico dell’Europa – in sostanza nel secolo post-americano – la necessità di un rafforzamento strategico e industriale e, in primo luogo politico, dell’Europa ha acquisito maggiore importanza ed urgenza. È divenuto essenziale per la sua sopravvivenza.

L’aggressione russa a Kyiv e i timori di uno sganciamento americano non solo dall’Ucraina ma dall’Europa in caso di elezione dell’isolazionista Trump alla presidenza Usa, non hanno provocato particolari reazioni. Le opinioni pubbliche non sono disponibili ad accettare un aumento di spese per la sicurezza. A differenza del Patriarca Kirill, che chiama “sacra” l’aggressione in Ucraina, in Occidente le autorità religiose blaterano contro le spese militari e il commercio delle armi, come se la guerra e la pace dipendessero da esse e non dall’equilibrio delle forze o dalla superiorità delle potenze fautrici dello status quo. Non per nulla, la guerra fredda è rimasta tale per l’esistenza della MAD, non per le manifestazioni antinucleari che volevano distruggerlo (come affermato anche nella lettera del giugno 1982 di Giovanni Paolo II all’Assemblea Generale dell’Onu).

Tra le ambizioni e la realtà non c’è di mezzo solo un mare, ma un oceano. La “trovata” di istituire un commissario europeo alla Difesa è ridicola senza che, contemporaneamente, venga finanziato un aumento delle “capacità”, che sono quelle che mancano all’Europa. Ci vorranno decenni e molte centinaia di miliardi per realizzare qualcosa di serio. Comunque, la coesione esistente in ambito Nato non sarebbe riproducibile a livello europeo se non in tempi lunghi e con sforzi erculei. Manca il “collante” costituito dalle forze e dal sistema C2ISR americani.

Qualsiasi aumento dell’autonomia strategica dell’Europa – e per attuare gli obiettivi previsti dallo Strategic Compact del 2022 (“dissuadere la Russia – contenere la Cina”) – richiederebbe una modifica istituzionale profonda dell’Ue. In pratica la sua trasformazione in uno Stato federale. La completa “federalizzazione” sarebbe assolutamente necessaria qualora la dissuasione fosse realizzata con un deterrent by punishment, cioè con armi nucleari o equivalenti (come quelle permesse dalle prospettive dell’ingegneria genetica, proibite come quelle nucleari, ma che possano essere sviluppate in segreto). Potrebbe invece limitarsi al voto a maggioranza qualificata in caso di “deterrent by warfighting capabilities esclusivamente convenzionale (ad esempio con un sistema basato sulla “difesa operativa del territorio”). In ogni caso dovrebbe esserci un trasferimento di sovranità agli organi comunitari. Ben difficilmente tutti gli Stati dell’Ue potrebbero farlo. Rimarrebbe comunque, almeno per un lungo periodo, il problema di rappresentatività e di accettabilità delle decisioni comunitarie da parte delle opinioni pubbliche.

La dipendenza dell’Europa dagli Usa non è solo politico-strategica, ma anche logistica, industriale e tecnologica. Essa non riguarda solo il campo nucleare. La Brexit l’ha accresciuta anche in settore convenzionale, sottraendo all’Ue lo Stato membro che più spende per la sua difesa. Basti ricordare il rapido esaurimento europeo delle scorte di munizioni nel corso della guerra di Libia oppure le limitate capacità europee nel settore del trasporto aereo, dei lanciarazzi multipli a lunga gittata, nella difesa antimissili, ecc. Ritardi esistono nel campo delle tecnologie emergenti: ingegneria genetica, intelligenza artificiale, quantum computing, ecc. La moltiplicazione delle iniziative dell’Ue nell’ambito del suo “complesso industriale e tecnologico per la difesa (EDTIC) hanno un impatto solo marginale. Il divario delle capacità dell’Ue è molto superiore a quello esistente fra le quote di bilancio dedicate al procurement, dato che i singoli armamenti rimangono in servizio per una ventina di anni.

Il divario è incolmabile. L’Ue non potrà realizzare un livello di sicurezza simile a quello del passato, anche se gli Usa non l’abbandonassero al suo destino. A parer mio, l’Ue non ha alternativa a quella di cercare di mantenere in piedi l’Alleanza. Due sono al riguardo le soluzioni possibili: primo, il rafforzamento del “pilastro” europeo della Nato, diminuendo i costi a carico degli Usa per la sicurezza europea; secondo, la trasformazione della Nato da alleanza regionale dell’Atlantico del Nord in una globale dell’Occidente. Andrebbero invece lasciati cadere tutti gli sproloqui sull’autonomia strategica dell’Europa e sull’Esercito europeo, irrealistici politicamente e finanziariamente e, comunque, a troppo lungo termine.

Entrambe le soluzioni comportano l’aumento delle spese per la difesa. Quelle attuali dell’Ue ammontano a 398 mld $ e dovrebbero aumentare di circa 120 per soddisfare l’impegno preso in ambito Nato di portare i bilanci al 2% del Pil (il bilancio Usa è di 905 e quelli cinese e russo di 220 e di 108 mld 4, ma in termini di potere d’acquisto sono, secondo l’ultimo Military Balance, rispettivamente di 408 e 294 mld $. Si tratta di una somma del tutto assorbibile dall’Europa. Non è detto però che possa contrastare le tradizionali tendenze isolazioniste del Partito Repubblicano, che per inciso si era opposto fino a Pearl Harbour al land-lease Usa a favore dell’UK.

La seconda soluzione – detta anche di una “Nato Globale” – era stata proposta come condizione per la sopravvivenza dell’Alleanza dopo la guerra fredda da coloro, come Baker e Cheney, che ritenevano che i suoi costi e rischi superassero i benefici che ne traevano gli Usa. Essa corrisponde, per inciso, ai mutamenti subiti dalla geopolitica mondiale, L’Occidente è sempre più osteggiato dal resto del mondo. Il “pivot” strategico degli Usa si è spostato nell’Indo-Pacifico. Al regionalismo dell’economia corrisponde una globalizzazione della sicurezza. Non si può chiedere agli Usa di mantenere la loro “dissuasione estesa” a protezione dell’Europa senza concorrere alla loro sicurezza nelle altre aree del mondo.

La soluzione comporterà un aumento tanto più consistente dei bilanci militari europei, quanto più l’Ue vorrà essere un vero alleato e non solo un ausiliario degli Usa. Orientativamente gli attuali bilanci della difesa dovrebbero almeno raddoppiare e si dovrebbe procedere ad una parziale riqualificazione delle forze, per accrescere le capacità europee di proiezione di potenza. Il provvedimento non va valutato solo per i suoi diretti riflessi sulla sicurezza, ma su quelli geopolitici del rallentamento del declino geopolitico o globale dell’Occidente nel mondo.

La scelta di quale soluzione adottare segnerebbe la rifondazione dell’Alleanza. Andrebbe effettuata in un contesto transatlantico. Sarebbe quella strategica che precederebbe una serie di concordate decisioni “tattiche” per attuarla. L’unica misura istituzionale che richiederebbe per essere vitale, sarebbe l’eliminazione della regola dell’unanimità, che impedisce anche oggi all’Ue di essere un attore geopolitico affidabile.

Il mito dell’autonomia della difesa europea e dell’esercito europeo. La versione di Jean

L’Ue non ha alternativa a quella di cercare di mantenere in piedi l’Alleanza Atlantica. Due le soluzioni possibili: primo, il rafforzamento del “pilastro” europeo della Nato, diminuendo i costi a carico degli Usa per la sicurezza europea; secondo, la trasformazione della Nato da alleanza regionale dell’Atlantico del Nord in una globale dell’Occidente. L’analisi di Carlo Jean

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