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Una domenica davvero particolare, questa, in cui cristiani e musulmani pregano insieme in chiesa per l’anima di un prete sgozzato, sempre in chiesa, da fanatici e terroristi convinti di onorare così Allah. Che, lasciatamelo dire senza darmi del blasfemo, si lascia da troppo tempo strumentalizzare così odiosamente, com’è accaduto in passato anche al mio, o al nostro Dio.

D’altronde, anche papa Francesco varcando i cancelli dei campi nazisti di sterminio si è appena chiesto, in pratica, dove fosse Dio quando tutte quelle atrocità venivano commesse. E dove sia ora che altre atrocità si compiono in tante parti del mondo in nome e per conto non delle religioni, pur invocate dagli assassini, ma degli interessi e dei soldi, ha detto il Pontefice.

Tutto questo accade in una guerra definita una volta da papa Francesco “a pezzetti”, e ora dal presidente della nostra Repubblica Sergio Mattarella “senza frontiere”. Una guerra che probabilmente, e augurabilmente, sarà ancora una volta vinta dal bene, ma non si può ancora sapere a quale prezzo. E aspettando chissà ancora quanto l’arrivo anche fra gli islamici dei dieci, cento, mille Guido Rossa da noi invocati dopo la prima strage islamista a Parigi, quando ricordammo l’operaio e sindacalista italiano che, anche a costo di essere ucciso nel 1979, denunciò i brigatisti rossi scoperti nella sua fabbrica, a Genova. E segnò davvero una svolta nella lotta al terrorismo, sino a sconfiggerlo, più ancora di quanto avesse potuto fare l’anno prima l’orrore provocato dall’assassinio di Aldo Moro, 55 giorni dopo il sequestro e lo sterminio della sua scorta a poche centinaia di metri da casa.

Ci vogliono – ripeto – dieci, cento, mille Guido Rossa anche questa volta, dovunque si stia spargendo sangue o si stiano preparando nefandezze non invocando ma bestemmiando contro il proprio Dio. Non bastano purtroppo le pur lodevolissime preghiere comuni, e neppure la pur lodevole decisione dell’Iman che ha negato la sepoltura islamica a chi ha sgozzato a Rouen padre Jacques gridando che “Allah è grande”.

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Una domenica particolare, questa, fatte le debite proporzioni, anche per Matteo Renzi. Che ha cercato di concludere la parabola, consigliatagli anche dal presidente della Repubblica in carica e da quello emerito che lo ha preceduto, della cosiddetta spersonalizzazione del referendum sulla sua riforma costituzionale.

Dalla promessa, o minaccia, di dimettersi, anzi di tornare a casa, nel caso in cui dovesse perdere il referendum, il presidente del Consiglio è passato, in una intervista all’ospitalissima Repubblica, dove forse non volevano sentirsi dire altro, all’annuncio che “tutto rimarrà come adesso”.

Renzi ha voluto forse riferirsi solo o soprattutto al fatto, per lui negativo, che la vittoria del no referendario vanificherebbe anche questo tentativo, dopo quello compiuto dieci anni fa da Silvio Berlusconi, di modificare la Costituzione per modernizzare il Paese. Altri potranno invece leggervi o trovarvi la rinuncia del presidente del Consiglio ad una crisi di governo al buio, come si diceva ai tempi della prima e troppo sbrigativamente odiata Repubblica. Una crisi che i soliti Massimo D’Alema, Nichi Vendola, Renato Brunetta, Beppe Grillo e Matteo Salvini, tanto per dare un’idea della contraddittorietà di questo curioso fronte, ritengono di facilissima, quasi banale soluzione, Ma che molti altri ritengono più ragionevolmente destinata solo a destabilizzare il Paese e ad arricchire ulteriormente gli speculatori di borsa. Che hanno già fatto tanti guadagni tre anni fa giocando con i titoli dell’ingente debito pubblico italiano.

Saranno contenti di questa svolta di Renzi, se si rivelerà veramente tale, a sinistra l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, appena pronunciatosi pure lui contro la crisi in caso di bocciatura referendaria della riforma costituzionale, e a destra Stefano Parisi. Che per non avere reclamato le dimissioni di Renzi in caso di vittoria di un no, che pure lui sostiene, si è guadagnato l’ostilità dei vari Salvini e Renato Brunetta, fuori e dentro Forza Italia, sul percorso di una riorganizzazione del campo “liberal-popolare”, come il mancato sindaco di Milano preferisce chiamarlo, piuttosto che riparlare di centrodestra. Un percorso ch’egli si è appena ottimisticamente proposto di portare avanti in un’intervista a Libero annunciando per il 16 e 17 settembre un “evento che sarà solo mio”, ha precisato forse per mettere l’amico e patrono Silvio Berlusconi al riparo da eventuali naufragi o altre difficoltà.

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Nella sua intervista a Repubblica, servitagli anche per escludere “manovre correttive” in economia e per dolersi delle “trappole disseminate” dai suoi predecessori a Palazzo Chigi, Mario Monti ed Enrico Letta, con le “atroci clausole di salvaguardia”  che comporterebbero “un salasso di 15 miliardi di euro”, fra aumenti dell’Iva e altro, Renzi ha cercato di ridurre la scandalosa forbice di date del referendum costituzionale emersa nei giorni scorsi: da ottobre a dicembre. “Ottobre o novembre, cambia poco”, ha detto il presidente del Consiglio.

D’altronde, è già dal 6 maggio che la Corte di Cassazione ha ammesso la richiesta del referendum pervenutale dal quinto dei parlamentari che per l’articolo 138 della Costituzione basta e avanza per una verifica elettorale sulla riforma costituzionale votata dalle Camere con una maggioranza inferiore ai “due terzi dei componenti”: componenti e non solo voti, preciso per non fare risaltare la mosca al naso dell’amico e professore Paolo Armaroli. I professori, si sa, sono esigenti. Giustamente esigenti, per carità.

Ecco come Matteo Renzi sta cambiando idea sugli esiti del referendum

Una domenica davvero particolare, questa, in cui cristiani e musulmani pregano insieme in chiesa per l’anima di un prete sgozzato, sempre in chiesa, da fanatici e terroristi convinti di onorare così Allah. Che, lasciatamelo dire senza darmi del blasfemo, si lascia da troppo tempo strumentalizzare così odiosamente, com’è accaduto in passato anche al mio, o al nostro Dio. D’altronde, anche…

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