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Il presidente francese, Emmanuel Macron “partirà non più tardi di questa sera” per la Nuova Caledonia, ha detto la portavoce del governo, sperando di calmare gli animi sui piani di riforma del voto pensati da Parigi e respinti dagli indigeni. Da giorni procedono manifestazioni trasformate in proteste violente, che le autorità locali (sebbene aiutate dal governo centrale francese) faticano a contenere. Ieri, un C-130 Hercules della Difesa australiana ha evacuato alcuni turisti per via del deteriorarsi della situazione di sicurezza.

I disordini sono iniziati in seguito all’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale francese della riforma costituzionale che garantisce il diritto di voto nelle elezioni provinciali ai residenti francesi verificati, che vivono da almeno dieci anni in Nuova Caledonia. Secondo i critici, tale misura potrebbe diluire il peso elettorale degli indigeni Kanak (una volta maggioritari, ora rimasti il 40% della popolazione). E tanto è bastato per gettare in subbuglio il Paese appartenente alla Collectivité d’outre-mer (come la Francia, dopo la revisione costituzionale del 2003, indica alcuni dei territori controllati).

Per comprendere le evoluzioni, è fondamentale il contesto. La Nuova Caledonia gode di uno status speciale differente da quello delle altre proprietà extraterritoriali francesi (è definita Collectivité d’outre-mer sui generis), ed è amministrata da un Alto Commissario. A livello territoriale, il governo è esercitato da un Congresso composto da 54 membri delle assemblee provinciali. Le tre assemblee provinciali sono elette a suffragio universale ogni cinque anni. Nel Parlamento francese, la Nuova Caledonia è rappresentata da un senatore e due deputati.

Nell’ottobre 2020, i residenti hanno respinto il referendum sull’indipendenza. Ma già il raggiungimento della maggioranza dei voti per rimanere parte della Francia aveva creato non pochi problemi a Parigi. I pro-Parigi hanno vinto col 53% e uno scarto di 9mila voti (nel 2018, quando già per la seconda volta si era votato per l’indipendenza, lo scarto era il doppio, su una popolazione totale che si aggira sui 250mila individui). La frattura sociale tra indigeni e franco-europei nel corso di questi quattro anni non si è ricucita, anzi. C’è anche una divisione geografica tra le due realtà, con i kanaki che vivono al nord e gli europei discendenti dai coloni (chiamati dai locali “caldoches”) che sono al sud. L’ex colonia francese, diventata semi-indipendente nel 1946 soffre dinamiche sociali interne — anche legate alle debolezze economiche — ed è oggetto di attività di disinformazione.

Parigi accusa Russia e Azerbaigian per la diffusione di teorie complottiste, essenzialmente basate sul rigurgito anti-coloniale e sulle ambizioni indipendentiste — sentimenti e condizioni che uniscono quanto sta accadendo a Noumea con esperienze simili nella Françafrique, dove la disinformatja russa ha lavorato per spingere a colpi di stato contro governo amici di Parigi, sebbene indipendenti formalmente. Ed è per questo che l’Eliseo si è mobilitato, istituendo lo stato di emergenza, chiudendo innanzitutto TikTok (luogo principale della diffusione di certa disinformazione), inviando non solo semplici rinforzi militari, ma squadre appartenenti ai gruppi tattici come il Gign (Groupe d’intervention de la Gendarmerie nationale) e dei servizi segreti.

C’è da verificare il contesto, scoprire eventuali sobillatori, oltre che preparasi per eventuali operazioni speciali contro i francesi alloctoni. Un colpo di stato è un rischio da non correre perché minerebbe la credibilità francese, creando problematiche dirette allo standing indo-pacifico. Parigi si professa infatti una nazione regione dell’Indo Pacifico, proprio grazie al controllo della Nuova Caledonia e della Polinesia Francese, rivendicando così uno status d’eccezionalismo rispetto al resto dei Paesi europei. Quanto succede è un danno di immagine, perché come può la Francia mostrarsi interlocutore regionale se non gode di consenso e stabilità all’interno dei territori per cui rivendica quello status?

Il rappresentante del governo francese in Nuova Caledonia non ha aiutato in questa gestione dell’immagine quando ha dichiarato che molte zone del territorio del Pacifico sono “sfuggite” al controllo statale. Era un appello a chiedere maggiore aiuto a Parigi, ma a livello comunicativo non funziona perfettamente. I 600 gendarmi mandati con le unità speciali dalla Francia stanno cercando di riprendere il controllo della parte suburbana della capitale, quella che la collega all’aeroporto. Ma è un lavoro difficilissimo, perché occorre evitare vittime per non far sembrare l’intervento come il pugno duro dei colonizzatori.

Anche a questo serve descrivere le proteste come frutto di attività straniere. Gérald Darmanin, il ministro degli Interni che ha competenza sulla gestione della crisi, sostiene che Parigi è da mesi in possesso di informazioni sulle attività di destabilizzazione promosse da Mosca e Baku (dando sostegno alla narrazione anti-colonialista portata avanti da realtà come il Front de libération nationale kanak et socialiste, attivo dal 1984 contro le formazioni di destra locali considerate lealiste con Parigi). La Russia per ora non replica, l’Azerbaigian — che intende essere interlocutore europeo — ha reagito con una dichiarazione velenosa del ministero degli Esteri: “Invece di accusare l’Azerbaigian […] la Francia dovrebbe concentrarsi sulla fallimentare politica del paese nei confronti dei territori d’oltremare che ha portato a tali proteste”.

Quanto accade tra Parigi e Baku racconta ancora una volta di come le dinamiche degli affari europei e indo-pacifici possano avere interconnessioni. La Francia infatti sostiene l’Armenia nella controversia con l’Azerbaigian per la regione contesa del Nagorno-Karabakh. Per questo teme che la Nuova Caledonia possa essere diventato un terreno di ritorsione azera (con Baku che ha anche una connessione fraterna con la Turchia, rivale francese nella competizione a cavallo del Mediterraneo).

C’è poi un ulteriore layer di carattere economico commerciale, tanto quanto geopolitico, come spiega Francesco Sassi, analista del Rie di Bologna e studioso dell’impatto delle politiche e delle strategie di sicurezza energetica dei principali attori globali: “La Nuova Caledonia possiede alcune delle riserve di nichel più grandi del mondo”. Il nichel è il motore dell’economia locale, tanto che il Paese ne è terzo produttore al mondo. Il metallo è fondamentale per l’industria dell’acciaio e delle batterie elettriche, c’è una forte crescita della domanda che ha portato a un aumento delle produzioni — soprattutto da parte indonesiana. I prezzi sono per questo generalmente calati, e inoltre “i tre impianti di lavorazione esistenti sono sull’orlo del collasso”, ricorda Sassi: “Il governo francese stima almeno 1,5 miliardi di euro gli investimenti per rilanciare il settore”, anche perché al calo del valore di esso si lega la contrazione economia del possedimento strategico nell’Indo Pacifico.

Nel 2023, il prezzo del nichel è diminuito del 45%, aggravando significativamente la situazione economica delle tre principali aziende del settore, già compromessa dall’aumento dei costi energetici. Questa riduzione della produzione, con la chiusura di alcune fabbriche ha ulteriormente deteriorato le condizioni economiche dei Kanak, già precedentemente svantaggiati rispetto alle altre componenti della società della Nuova Caledonia in termini di povertà e istruzione. Le tensioni sociali si sono trasformate in manifestazioni, su cui la disinformazione ha gettato benzina facendole diventare vere e proprie rivolte.

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