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Un pessimo accordo è meglio di nessun accordo. Quello su Gaza è senz’altro un accordo non ideale, ancora pieno di buchi e di incertezze. Ma è un accordo necessario, non foss’altro per spezzare, vedremo quanto temporaneamente, una spirale drammatica e non più tollerabile. Dimentichiamo il fatto che da lunedì le sofferenze del popolo palestinese finiranno. Dimentichiamo anche che Israele potrà dirsi più sicuro. Ma quanto meno le lancette dell’orologio si riportano ad una condizione di stasi, utile a riflettere e decidere cosa fare per affrontare, una volta per tutte, la devastante dimensione del conflitto israelo-palestinese.

L’accordo andrà innanzitutto verificato alla prova dei fatti. La creazione di una zona cuscinetto israeliana lungo il perimetro della Striscia di Gaza e la possibile presenza di una forza di interposizione multilaterale possono solo in parte stemperare un livello di tensione ormai enorme. Lo abbiamo visto succedere già nella storia: l’arrivo della coalizione dei volenterosi in Iraq prima e in Afghanistan poi ha creato molti anticorpi.

Sotto il profilo squisitamente diplomatico, la crisi si è internazionalizzata. Il che è al contempo un bene e un male. Un bene perché non è più, come nel passato, un gioco a quattro, con gli Usa e l’Unione Sovietica a sostenere le due parti in causa. Oggi attorno al conflitto mediorientale ci sono interessi e attori più larghi: la Turchia, che sta riempiendo gli spazi lasciati liberi dal crollo della mezzaluna sciita; l’Iran, che ha dovuto cedere terreno ma il cui regime continua a trovare il proprio collante nell’odio verso Israele. E ancora la Russia, con Putin che si è congratulato con Netanyahu per l’accordo, il Qatar, che ha accettato di proseguire la negoziazione nonostante l’attacco mirato a Doha dei caccia israeliani. E l’Egitto, terreno di incontro tra le parti sin dai tempi di Sadat.

Manca, per il momento e anche in questo caso, un ruolo preponderante per l’Unione europea, che però ha ancora qualche chance. Vedremo se e quanto Bruxelles e i singoli Paesi europei vorranno contribuire al mantenimento militare della tregua e alla ricostruzione di una striscia di terra devastata. Sicuramente appare pronta l’Italia. Il governo non ha atteso molto per rendere disponibile il sostegno alla lunga fase di transizione che si prefigura in quei territori. Magari con un occhio ad un aspetto politico tutto ancora da scrivere: la riconciliazione tra le fazioni palestinesi. Una precondizione perché si possa, un giorno non ancora vicino, ragionare di continuità territoriale e di creazione di un’entità statale palestinese. In questo senso, il ruolo della Chiesa di Leone XIV è fondamentale. Non stupirebbe l’avvio di un dialogo tra Autorità nazionale e ciò che rimane dei vertici di Hamas favorito dalla Santa Sede e dal Patriarcato Latino.

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Gianluca Ansalone

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