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Third time lucky? Potremmo forse dire questo di Volodymyr Zelensky, reduce ieri dal suo terzo faccia a faccia con Donald Trump alla Casa Bianca. Il leader ucraino è sembrato indubbiamente più a suo agio rispetto ai due precedenti incontri.

Nel primo, a febbraio scorso, si era presentato “senza avere le carte” in mano ed era finito sulla sedia degli accusati venendo”schiaffeggiato” verbalmente sia da Trump che da Vance.

Nel secondo, ad agosto insieme agli altri leader europei, era andata meglio ma la sua partecipazione era stata messa in ombra da un Trump gongolante per il presunto successo portato a casa dal vertice di Anchorage con Vladimir Putin.

Nell’incontro di ieri a Washington, invece, Zelensky ha dimostrato di essere finalmente riuscito a “prendere le misure” del proprio interlocutore, presentandosi con più carte in mano e la giacca scura di buon taglio, e con la pragmatica consapevolezza che, dopo quasi quattro anni di guerra con la Russia, un accordo deve essere raggiunto.

Purtroppo, però, nella sostanza dei fatti è cambiato poco o nulla.

Il “generale inverno” è ormai quasi alle porte in Ucraina, cosa che renderà le operazioni militari più difficoltose sia nei cieli (per quanto riguarda l’utilizzo dei droni) che sul terreno con le truppe che resteranno bloccate tra gelo e fango.

Insomma, come ogni inverno si riproporrà quanto abbiamo visto nei precedenti anni di conflitto, con una situazione di sostanziale stallo che offrirà alla Russia la possibilità di consolidare le posizioni guadagnate in territorio ucraino nei mesi scorsi.

Per una strana ironia della sorte, la storia in un certo modo si ripete: se in passato erano stati gli eserciti di Napoleone e Hitler ad essere fermati dal gelido inverno russo-ucraino, oggi invece sono entrambi gli schieramenti sul campo a venire bloccati, congelando il conflitto in una tradizionale “guerra di posizione”.

Tuttavia, come successo a Gaza dove si è aperta una finestra di opportunità a causa della stanchezza e del logoramento sia di Israele che di Hamas, anche in questo caso il Presidente Usa potrebbe spingere Russia e Ucraina a sedersi al tavolo del negoziato facendo leva sulle rispettive difficoltà militari ed economiche (Mosca fino ad ora ha dimostrato di resistere più del previsto alle sanzioni, ma si cominciano a scorgere i primi segni di cedimento).

Trump sente dunque che è il momento di andare “all in” e di mettere nuovamente in atto la sua personalissima strategia diplomatica, che prevede di tenere in una mano il “martello” per picchiare duro e nell’altra un ramoscello di ulivo e un libretto degli assegni per blandire i propri interlocutori con la promessa di lauti investimenti, lucrosi per tutti.

Così deve aver fatto il Presidente Usa con Zelensky dietro le quinte, negando l’utilizzo dei missili tomahawk (che hanno una gittata compresa tra 1600 e 2500km e avrebbero comunque rischiato di provocare un allargamento del conflitto troppo pericoloso) ma promettendo sostegni di natura economico-finanziaria all’Ucraina una volta che sarà finita la guerra.

A questo proposito, occorrerà vedere se e come si sbloccherà la questione legata agli asset finanziari russi congelati dai Paesi occidentali e che alcuni vorrebbero utilizzare per la ricostruzione dell’Ucraina, opzione su cui gli USA hanno fino ad ora frenato e su cui potrebbero dare via libera qualora si trattasse di prestiti che poi Kyiv dovrebbe restituire.

L’obiettivo è dunque quello di pervenire rapidamente a un cessate il fuoco tra Russia e Ucraina, sulla base di reciproche concessioni che portino sostanzialmente ad un pareggio.

Tuttavia, si tratta di una strategia non priva di rischi, dato che un accordo troppo frettoloso e generico potrebbe lasciare troppa incertezza rispetto alle fasi successive del negoziato (come, del resto, sta accadendo in Medio Oriente).

Inoltre, il compito in questo caso è più arduo rispetto alla soluzione del conflitto a Gaza, in cui Netanyahu a capo dell’unico paese dell’area dotato di una forza militare dominante, si trovava stretto in un angolo e Hamas non era stata neppure invitata al tavolo negoziale.

In questo caso ci sono invece due Stati in guerra tra loro, certamente meno inclini (soprattutto la Russia) a farsi dettare la linea dagli USA ma che potrebbero però rivelarsi più affidabili nel rispettare i punti dell’eventuale accordo in una prospettiva di medio periodo.

In mezzo si trova l’Europa, che purtroppo sembra condannata ad avere poca voce in capitolo anche in questa circostanza e anche a sopportare lo “schiaffo” inferto dalla decisione di ospitare il vertice fra Trump e Putin a Budapest, nell’Ungheria di Orbàn che rappresenta una vera spina nel fianco della Ue e in barba al pronunciamento della Corte Penale Internazionale che imporrebbe alle autorità magiare di arrestare lo “zar”.

Incapace di pervenire ad una posizione comune, l’Ue è costretta dunque a restare a guardare oscillando tra le posizioni più oltranziste e bellicose di Polonia e Paesi baltici (per dolorose ragioni storiche), e quelle più aperturiste della Francia (indebolita però dalla crisi politica interna), insieme a Regno Unito, Germania e anche Italia che con la premier Meloni e il ministro degli Esteri Tajani cerca di mantenere una posizione realista ed equilibrata.

Nel frattempo, vedremo se dopo il Covid, questa nuova “epidemia” globale rappresentata dalle guerre potrà essere quantomeno contenuta con le azioni incisive (a volte fin troppo) del “vaccino” Trump, determinato a giocare il ruolo di “vettore” di pace.

Ucraina, perché per Trump è il momento dell'all-in. La versione di Castellaneta

Dopo l’incontro con Zelensky, Trump sente che è il momento di andare “all in” e di mettere nuovamente in atto la sua personalissima strategia diplomatica, che prevede di tenere in una mano il “martello” per picchiare duro e nell’altra un ramoscello di ulivo e un libretto degli assegni per blandire i propri interlocutori con la promessa di lauti investimenti, lucrosi per tutti. L’opinione dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta

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