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La città di Bruxelles fungerà oggi da palcoscenico per l’incontro tra i ministri della Difesa dei trentadue Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, finalizzato alla discussione delle proposte relative al miglioramento della capacità di reazione della Nato rispetto alle minacce aeree più o meno convenzionali. Una riunione nata sulla scia delle recenti violazioni dello spazio aereo di alcuni Paesi europei da parte di droni provenienti (dichiaratamente o meno) dalla Russia, oltre che dalla violazione dello spazio aereo estone da parte di due Mig di Mosca. Una prima reazione l’Alleanza Atlantica l’ha già mostrata quando a metà settembre ha lanciato l’operazione “Eastern Sentry”, che prevede lo stanziamento di asset appartenenti ai vari Paesi della Nato lungo il confine orientale per garantire un controllo più capillare dei cieli dell’Alleanza.

A Bruxelles il centro della discussione non si concentrerà però sulle capacità da impiegare, quanto sulle “difficoltà giuridico-politiche” dietro ad esse. L’hanno reso chiaro sia il generale statunitense Alexus Grynkewich, Comandante Supremo Alleato in Europa, sia l’ambasciatore statunitense alla Nato Matthew Whitaker: la presenza di molteplici “Caveat nazionali” relativi non solo alle regole d’ingaggio ma anche alle diverse tipologie di missioni aeree esistenti nelle strutture burocratiche delle varie forze aeree (un patchwork, per usare un termine impiegato da un alto funzionario Nato) complica tremendamente la capacità di una reazione coesa e rapida da parte del comando Nato in Europa, e cercare di ridurre al minimo questo tipo di differenze rappresenta un punto cruciale per rendere più efficiente la difesa dei propri cieli, aumentando “la flessibilità e i margini di manovra” a disposizione del vertice militare dell’Alleanza.

Il focus su questi temi è di per sé un segnale positivo, che implica una certa attenzione verso il raggiungimento di progressi concreti. Ma, per quanto fondamentali in una prospettiva a breve termine, le discussioni non devono limitarsi soltanto a raggiungere il miglior risultato possibile con quello che si ha a disposizione adesso. Ci sono altri nodi che la Nato deve sciogliere il prima possibile per garantire la sicurezza dei propri cieli (e non solo) in Europa.

Come, ad esempio, la relativa assenza di contromisure apposite con un positivo rapporto di costi e benefici. In occasione dell’incursione di dodici droni russi nei cieli polacchi, la Nato ha fatto decollare dei velivoli multiruolo per distruggere i sistemi che erano entrati nello spazio aereo alleato. Soltanto il costo del decollo di questi sistemi è senza ombra di dubbio maggiore di quello dei droni bersaglio; a questo si deve anche aggiungere il costo della munizione usata per attuare l’abbattimento effettivo. Se in un caso isolato queste discrasie non pesano certo in modo gravoso, in un’ottica prolungata la situazione rischia di diventare insostenibile.

La questione non è solamente economica. Nel caso sì estremo ma comunque possibile di un’escalation militare con la Russia, l’assenza di un moderno e integrato sistema di difesa aerea capace di gestire in modo appropriato ed equilibrato i differenti tipi di minacce presenti nell’arsenale russo, dai droni e dalle gliding bombs fino ai missili cruise e balistici, oltre che agli stessi velivoli, rischia di facilitare un più rapido raggiungimento di un effetto saturazione, con conseguenze disastrose sul piano operativo.

Alcune iniziative che mirano ad affrontare queste falle sono già state proposte, come ad esempio l’European Sky Shield Initiative. Ma è necessario che vengano trasposte dalla carta al piano pratico con un comprovato grado di efficacia nel minor tempo possibile, per ridurre l’esposizione dell’Europa a minacce ibride che potrebbero da un momento all’altro sfociare sul piano convenzionale.

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