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Nel giorno in cui l’Istat certifica il nuovo aumento della disoccupazione giovanile su base mensile (39,2%, +2% su giugno) e la presenza di 53mila inattivi in più nel nostro paese, il Governo pubblica trenta slide dedicate ai numeri dei suoi primi trenta mesi di attività. “Numeri, non chiacchiere” recitano lo slogan sulle slide e il tweet di Renzi che le rilancia auspicando “tutti insieme, nella stessa direzione”.

Riconosciuto il grande errore di aver personalizzato il referendum costituzionale Renzi sembra ora tentare di chiamare gli italiani all’unità di intenti, mettendo tra parentesi le divisioni e i molteplici fronti di conflitto politico da lui aperti. Il dato numerico sembra voler essere un polo attraverso il quale far convergere le distanze. Nella continua battaglia di cifre sul lavoro che va avanti ogni mese almeno da marzo 2015, il regno del numero è infatti stavolta usato da Renzi come la dimensione dell’oggettività, contesto di discorso nel quale non è possibile discutere alcune verità, ma tuttalpiù formarsi delle personalissime opinioni. Con la più antica delle dissociazioni retoriche (verità vs. opinione), Renzi tenta così di promuovere un messaggio quasi contrario al suo più tradizionale pattern conflittuale: quello della rottamazione, della lotta ai gufi e del leaderismo.

Dice quindi esplicitamente il premier nella sua e-news: “Dire la verità in modo semplice e chiaro, offrire numeri e cifre è possibile. Poi ognuno si fa una propria opinione. Ma i numeri sono chiari. Le cifre non mentono”. A ben vedere Renzi ha ragione. Sbaglia chi imputa semplicisticamente al premier di “raccontare balle” e bene sarebbe ripetere più spesso da parte degli opinionisti la differenza tra menzogna, errore e scelta retorica. Non tanto perché i primi due non siano gravi, ma piuttosto perché la terza è politicamente molto più potente. Il Governo infatti non mente quando cita i suoi dati. I conti tornano tutti. Il Governo semmai sceglie, seleziona, e questo è il punto. Il problema della verità di cui parla Renzi non è infatti nei numeri, i quali costituiscono la rappresentazione di una realtà, rappresentazione che può quindi variare in base alla dimensione scelta (il dato) e al periodo considerato (il riferimento cronologico). Il problema della verità riguarda invece la connessione tra i dati di fatto.

Quanto al primo punto si può notare per esempio con quanta passione commentatori e governo si concentrino sul dato della disoccupazione, dato che singolarmente significa molto poco, perché sintetizza sia la variazione degli inattivi sia quella degli occupati e quindi va fornito contestualizzato; fatto risaputo ma che nell’epoca della sintesi dominante sembra passare inosservato dai più. Altra scelta è quella di fornire numeri macro senza scorporarli, cosa che per esempio relativamente alle fasce d’età dei nuovi occupati, potrebbe svelare informazioni interessanti. Nella prima slide infatti si mostra come negli ultimi trenta mesi siano 585mila gli occupati in più, ma se si mostrasse che dal febbraio 2014 abbiamo 889mila occupati in più tra gli over 50 e 337mila in meno nella fascia 25-49 anni l’impatto, anche considerato l’invecchiamento della popolazione e l’impatto della riforma Fornero (non semplici da spiegare al grande pubblico) sarebbe completamente differente. Allo stesso modo un semplice confronto tra il tasso di occupazione italiano e quello dei diversi paesi europei mostrerebbe chiaramente la distanza che ci separa drammaticamente.

Quanto ai riferimenti cronologici, bene fa il governo a suggerire uno sguardo lungo, contrapposto alla frenesia del commento mensile, spesso da correggere in sede trimestrale. Peccato che il governo in questo senso sia vittima anche di se stesso in quanto nelle slide a volte utilizza come punto di partenza un mese e a volte un altro. Non si capisce ad esempio il dato della disoccupazione che a febbraio del 2014 era del 12,8% ma appare nelle slide al 13,1%. Praticamente impossibile poi che il destinatario colga tale invito quando il messaggio è tanto carico di iperboli. Slide dove a cifre milionarie si contrappone uno zero, con l’effetto comico aggiuntivo del non sense. Che senso ha fare comparazioni su dimensioni continue, come l’occupazione e gli investimenti, per poi esibire dimensioni per le quali il governo si proclama “anno zero”, come nelle slide sull’IMU, gli “ottanta euro”, sulla dichiarazione dei redditi precompilata? Seguendo la logica si osserva poi la mancanza dell’innovazione delle innovazioni, la “rivoluzione copernicana” per dirla con lo stesso Renzi: quanta intenzionalità attribuire alla scelta di omettere una slide come “assunti a tutele crescenti: 0 vs tot”?

Ma soprattutto la scelta di utilizzare l’inizio del governo Renzi come data dal quale valutare i miglioramenti significa non cogliere che il vero problema oggi è quello di tornare ai livelli pre-crisi. Il vero paragone si gioca su questo, non tanto su di una data intermedia, sicuramente importante a livello comunicativo, ma che sembra ridurre il successo ad una differenza tra un “prima” scelto a tavolino e un oggi.

La scelta del Governo di uscire pubblicamente con questo tenore di messaggio appare poi una dimostrazione di muscolarismo in un giorno in cui l’Istat conferma la situazione complessa del mercato del lavoro italiano. L’approccio sembra dunque quello di negare una problema, tanto più ampio quanto più lo si paragona con la situazione europea, piuttosto che individuare contestualmente elementi positivi e altri in cui siamo ancora indietro e per i quali è urgente migliorare. Il riconoscimento del problema infatti coinciderebbe con l’ammissione che l’unica vera riforma dell’esecutivo, il Jobs Act, non ha saputo dare quella spinta necessaria per una vera ripresa perché non basta una riforma del lavoro per generare un cambio di rotta.

In ultimo un dato psicologico, che può emergere dal rapporto tra rappresentazione e realtà dei fatti. L’insistenza costante sullo storytelling del cambiamento, della nuova Italia in cui i problemi sono stati risolti, non potrà che apparire distante, fino a generare astio, in coloro che invece i numeri rappresentano molto bene, ossia i giovani disoccupati, le fasce d’età intermedie dalle alte competenze e senza un lavoro e così via… Si affaccia quindi il rischio di una eterogenesi dei fini tra un messaggio che vuole nelle intenzioni essere riunificatore ma che nei fatti rischia di ampliare quella distanza, oggi più che mai pericolosa, tra i cittadini e i propri rappresentanti. Distanza che forse potrebbe ridursi facendo capire che i problemi sono chiari, sono ancora presenti e la volontà di risolverli è figlia proprio di questa consapevolezza. Perché è vero che davanti all’evidenza le opinioni convergono, ma il prezzo dell’evidenza è alto, e serve il coraggio di pagarlo.

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