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Oggi, mercoledì 22 giugno, Victoria Nuland, assistente del segretario di Stato americano per gli affari europei e euroasiatici, arriva a Kiev per incontrare una delegazione di alti funzionari del governo ucraino e discutere della guerra nella regione orientale del Donbass, dell’attuazione degli accordi di Minsk (quelli che dovrebbero porre fine alle ostilità, firmati più di un anno fa con la Russia, ma ancora mai implementati fino in fondo), collaborazioni bilaterali, necessità di riforme. Poi proseguirà il suo viaggio verso Mosca, dove ci sarà un altro incontro di alto livello con uomini del Cremlino sugli stessi temi. Washington e Mosca sono impegnate a tutto campo in dialoghi e contrasti. Gli Stati Uniti si stanno facendo promotori di un’intesa con la Russia per risolvere la situazione entro fine anno, aveva annunciato Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, qualche giorno fa: nel frattempo, durante la stessa settimana, l’Europa ha confermato fino al giugno 2017 le sanzioni economiche contro la Russia conseguenti alla crisi ucraina, e gli americani non si sono messi di traverso.

I MOVIMENTI DI NULAND

Il viaggio di Nuland è interessante anche perché secondo molti degli ufficiosi retroscena, che accompagnano questi intensi periodi di campagna elettorale americana, potrebbe essere lei, nel caso di vittoria di Hillary Clinton alle presidenziali di novembre, a subentrare al sua attuale capo John Kerry per guidare la diplomazia americana nella futura amministrazione (o forse, secondo altre ricostruzioni altrettanto speculative, potrebbe prendere il posto di Rice). Victoria Nuland è ritenuta un falco clintoniano, un pupillo di Hillary fin dai tempi in cui dirigeva lei il Dipartimento di Stato, e queste volontà collaborative a cui è costretta al momento, seguendo la linea dell’attuale Casa Bianca, potrebbero anche venir meno in futuro se dovesse ricoprire incarichi ancora più apicali. Suo marito, Robert Kagan, è uno dei teorici del neoconservatorismo americano, cofondatore del Project for the New American Century nel 1998 (quello con cui si idealizzava, tra le altre cose, la necessità che l’America spingesse i “regime change” negli Stati canaglia), senior fellow alla Brookings Institution, ospite fisso di editoriali sui principali fogli americani (molti dei quali, dicono i critici, scritti a quattro mani con la moglie), autore di libri molto apprezzati anche da Barack Obama: Kagan è uno di coloro che non appoggeranno il Gop e ha già dichiarato il voto per la democratica Clinton. I cognati di Nuland, il fratello (Fred) e sorellastra (Kimberly) di Robert Kagan, sono rispettivamente il falco dei falchi all’American Enterprise Institute e la direttrice dell’Institute for the Study of War (finanziato in gran parte dagli appaltatori della difesa). I Kagans sono una potenza nel mondo di quei think tank che chiedono agli Stati Uniti lo sforzo etico di provvedere, anche militarmente, all’ordine mondiale, come romantico intervento liberal a sostegno degli oppressi, dei diritti e delle questioni umanitarie. Nuland, per ricordare, è colei che mentre era al telefono con l’ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt, nei giorni caldi del Maidan, colorì l’immobilismo inattivo europeo con un “Fuck the EU!” e invitò il diplomatico a spingere affinché Arseniy Yatsenyuk diventasse primo ministro (come in effetti è stato dal 27 febbraio del 2104 fino all’aprile dei quest’anno); “Yats is our guys” disse Nuland. La telefonata del capo dei funzionari che curano il dossier-Europa per il dipartimento americano con il suo diplomatico era stata diffusa dai media internazionali, probabilmente dopo essere stata intercettata e venduta dai servizi segreti russi. Ora è lei che nei prossimi giorni terrà incontri con le controparti anche a Mosca sulla delicata pratica, a cui si appendono molti dei sommovimenti in ambito Nato, e c’è da giurarci che i russi non avranno dimenticato, anche di quando disse che avrebbe preferito fornire sistemi offensivi piuttosto che difensivi all’esercito ucraino.

LA TEORIA DI FLOURNOY

La situazione si correda dunque di controverse ambiguità che poco promettono per la buona riuscita dei negoziati: stesso discorso per l‘altra grande pratica appesa tra Russia e Stati Uniti, la crisi siriana. Michèle Flournoy, già papabile ai tempi dell’elezione di Ash Carter, potrebbe essere la nuova guida del Pentagono per l’Amministrazione Clinton; il suo si trova su una “short, short list” di nomi, dice David Ignatius del Washington Post. Flournoy durante la conferenza annuale del Center for New American Security (Cnas), think tank che si occupa di sicurezza nazionale e counter terrorism (tra i membri anche Richard Armitage, ex vice segretario di Stato con G.W. Bush, un altro dei repubblicani che ha già annunciato il voto per Hillary), ha detto che gli Stati Uniti devono mandare soldati a combattere lo Stato islamico in Iraq e Siria, e lì colpire anche il regime di Bashar el Assad. Questa di andare a Damasco è una vecchia proposta di Clinton (studiata con David Petraeus e Leon Panetta, ai tempi direttore della Cia e capo del Pentagono), datata 2012, tornata di moda in questi giorni dopo che il Washington Post e il New York Times hanno messo le mani su un  memorandum del “dissent channel” interno al dipartimento di Stato in cui 51 funzionari che lavorano sul dossier-Siria hanno chiesto all’Amministrazione di mettere tra i target anche Assad. Secondo Flournoy e in base a un saggio appena uscito a firma dell’Isis Study Group del Cnas – e anche secondo quelli che hanno redatto il documento – gli Stati Uniti dovrebbero prendere in considerazione la creazione di una “no-bombing zone” (una sorta di no-fly zone più morbida) e punire eventuali violazioni di Damasco, senza interferire però con le strutture occupate dalla Russia. Una questione piuttosto complicata, se si pensa che la Russia è il protettore di Assad, e la settimana passata s’è chiusa tra le accuse americane, che avrebbero colpito una postazione del Southern Front (raggruppamento ribelle del Free Syrian Army che lavora nelle parti meridionali del paese anche con il nome di Nuovo esercito siriano, tanto contro Assad che contro le spurie del Califfo), a cui s’è tentato di metterci una pezza con un possibile coordinamento deciso tra ufficiali russi e americani via videoconferenza.

MOSCA CHE FA?

Mosca sta cercando di collaborare (senza tralasciare la propria agenda, chiaramente) con Washington nonostante tutto? Alle dichiarazioni di Donald Trump, che batte sulla volontà reciproca di costruire un nuovo, collaborativo rapporto con il Cremlino e si vanta di essere stato definito “un uomo brillante” dal presidente russo in persona, seguono le spiegazioni di Vladimir Putin, che si professa aperto verso “chiunque” sarà il futuro presidente. È probabilmente una strategia e una necessità, perché se il candidato repubblicano annuncia amicizia, i falchi di Hillary scalpitano su una linea piuttosto differente. Alcuni osservatori delle dinamiche russe spiegano a Formiche.net che Mosca cercherebbe di stringere in questo momento ai tavoli negoziali sulle due grandi questioni globali aperte in cui è coinvolta, e ottenere il massimo possibile nei propri interessi, perché percepisce che l’attuale posizione conciliante dell’Amministrazione Obama (molto concentrata, in questa fase conclusiva, nel mantra “don’t do stupid shit“) potrebbe avere i giorni contati.

(Foto: Wikicommons, Brown & Black Presidential Forum in Des Moines, Iowa,

Chi sono e come scalpitano i falchi di Hillary Clinton

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