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La riforma della Pubblica amministrazione firmata da Marianna Madia è legge da un pezzo. Eppure alcune sue sfaccettature rischiano di creare l’ennesima spaccatura tra mondo del lavoro e governo, creando le basi per un nuovo autunno caldo. Tutto nasce dalle norme attuative della riforma appena varate dal Consiglio dei ministri, riunitosi nel pomeriggio del 25 agosto, che il governo avrebbe voluto approvare prima di Ferragosto, salvo poi prendersi due settimane di riflessione per non cadere nella trappola delle decisioni affrettate, attirandosi le ire dei sindacati.

 COSA HA DECISO IL GOVERNO

Tutto parte dal ripensamento della dirigenza pubblica di prima fascia, quell’alta burocrazia fino a poco tempo fa considerata intoccabile. Le nuove regole sono un mix di flessibilità e ricerca del merito, applicando alle amministrazioni un meccanismo simile a quello delle porte girevoli. La novità più importante riguarda la “fine” del dirigente a vita. Da oggi, gli alti burocrati avranno un mandato a tempo di 4 anni, eventualmente rinnovabile, per una volta sola, per altri due anni. Dunque, spazio alla rotazione degli incarichi. Alla scadenza dei quattro anni scatterà un vero e proprio concorso, bandito da apposite commissioni “per la dirigenza pubblica”, che metterà per una volta i dirigenti al pari dei loro sottoposti, valutando i nuovi incarichi da affidare esclusivamente sul merito. Chi non trova una collocazione e rimarrà senza incarico, non percepirà la parte variabile della retribuzione. Per ogni anno che passa senza un ruolo operativo, il dirigente si vedrà decurtata anche la retribuzione fissa del 10%. Dopo sei anni fuori dai ranghi, il dirigente potrà essere licenziato, a meno che non accetti volontariamente di essere degradato a semplice funzionario.

LA CORSIA PREFERENZIALE

A far slittare di qualche giorno l’attuazione della riforma ha contribuito non poco la levata di scudi dei direttori generali, soprattutto quelli ministeriali. Decisamente ostili a partecipare al “mercato” dei concorsi al pari degli altri funzionari. Per spegnere l’incendio sul nascere, il governo ha previsto una sorta di salvagente, permettendo agli alti dirigenti di aggirare lo scoglio del concorso. Una “corsia preferenziale” il cui schema prevece lapossibilità per le amministrazioni, quando metteranno a bando gli incarichi secondo il nuovo regime, di riservare almeno il 30% dei posti a chi ha già ricoperto nell’amministrazione un ruolo di prima fascia. L’altro 70% dovrà invece partecipare ai bandi senza riserva del posto, ma potrà comunque contare sul proprio curriculum per spuntarla nella selezione.

I MALUMORI DEI SINDACATI

La norma in questione, quella del salvagente ai direttori generali, non sembra piacere ai sindacati della dirigenza pubblica, che giudicano il meccanismo come una pericolosa discriminazione interna alla Pa. “Nulla di più errato di creare divisioni con certe fasce di colleghi che starebbero cercando di sottrarsi dall’azzeramento degli incarichi”, ha detto in più occasioni Barbara Casagrande, segretario generale di Unadis (sindacato dei dirigenti di Stato) e Confedir (confederazione autonoma dei dirigenti e quadri). “In una riforma che già non comprende tutta la dirigenza della Repubblica, perché esclude prefetti e diplomatici, professori universitari e presidi”, prosegue, “vogliamo creare ulteriori divisioni?”.

PAGELLE AI DIRIGENTI

I decreti attuativi prevedono poi però un’altra norma, sempre legata a doppio filo al merito. Ovvero una valutazione ottenuta di anno in anno dai dirigenti, che impatterà direttamente sulla loro busta paga. Fino al 30% per i dirigenti mentre nel caso dei dirigenti generali, il peso della valutazione dovrà salire al 40%.  Ora la palla passa alle commissioni parlamentari, che dovranno rispedire il testo al Cdm entro novembre, ultimo mese utile per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

 

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