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“E’ facile buttare addosso all’Europa tutte le colpe, le colpe di tutto. Più difficile è cercare di costruire un’Europa diversa, più attenta ai valori e meno alla grande finanza. Noi ci stiamo provando, con tutta l’energia di cui disponiamo”: con queste parole, il premier Matteo Renzi ha cercato di costruire un clima di speranza attorno al vertice di ieri, durante il quale ha incontrato Angela Merkel e François Hollande. Ventotene, luogo evocativo come pochi altri per la storia dell’europeismo, ha fatto da scenario, mentre l’incontro e la conferenza stampa finale si sono svolti a bordo della Garibaldi, fiore all’occhiello della nostra Marina.

Si cerca di tessere una tela per il futuro, altro filo per gli investimenti e la crescita, per dare una occupazione ai giovani e lenire le diseguaglianze che si sono accresciute a dismisura. Sicurezza, profughi e soprattutto le prospettive dell’esercito europeo, rappresentano l’altro dossier, quanto mai ostico. Fu su quest’ultima questione che già si infranse la prospettiva dell’unione politica europea nel ’54: non sono temi da premier a metà mandato, con scarse probabilità di rinnovo e addirittura sulla via del tramonto. D’altra parte, affermare che il Vertice a tre promuove un’Europa che parte dal basso non è un solo ossimoro, quanto il segno della crisi della capacità di racconto delle élite.

Per molti, ciò che è fatto, è fatto. Con responsabilità crescenti per quanto è successo in questi anni, i tre leader hanno ambizioni diverse. Ancor più che alla Nuova Europa, ciascuno pensa al proprio futuro. Renzi può rivendicare di essere stato il primo ad affermare che l’austerità da sola non basta, e di essersi battuto da solo, contro tutto e tutti, durante il semestre di presidenza italiani per ottenere un po’ di flessibilità nel Fiscal Compact: ha bisogno di ottenere diversi decimi di flessibilità per il deficit, per non essere costretto ad una manovra restrittiva nel bilancio per 2017 e per non compromettere la flebile crescita economica in atto e soprattutto le possibilità di vincere le elezioni nel 2018. E’ una scommessa comunque azzardata, perché un maggior deficit di bilancio da solo non basta, ed anzi preoccuperebbe i mercati: servono, ancor più, gli investimenti privati ed il reimpiego in Italia dell’avanzo delle partite correnti. Hollande affronta da perdente la sfida delle presidenziali che si svolgeranno nel prossimo inverno: ha deluso i francesi, cui tanto aveva promesso durante la campagna elettorale che lo aveva visto vincente, dalla rinegoziazione del Fiscal Compact, alla modifica dello Statuto della Bce per enfatizzare l’obiettivo della piena occupazione, alla istituzione degli Eurobond: dovrà spuntare un raddoppio della dotazione del Piano Junker: alla Francia servono investimenti rilevanti nelle grandi industrie per ridurre l’enorme deficit commerciale che ha verso Germania ed Italia. Ad oggi, infatti, gli investimenti esteri in Francia sono serviti a penetrare meglio il suo mercato piuttosto che a farne una piattaforma produttiva per l’export: la loi travail, la fotocopia del jobs act voluto in Italia da Matteo Renzi, dovrebbe conferire al mercato del lavoro francese quel grado di flessibilità e di competitività auspicato da anni dalla Confindustria d’Oltralpe. Per una nuova vittoria di Hollande, i tempi sono troppo stretti: tirerà la volata a chi si candiderà per il Partito Socialista, combattendo per la bandiera.

Molto più delicato è il ruolo della Cancelliera Angela Merkel, che da qualche tempo cerca di condividere le pesanti responsabilità delle scelte europee di cui è stata la artefice assoluta: ha bisogno di condividere il peso delle conseguenze di queste scelte, per evitare di trasformarsi nel bersaglio di ogni contestazione e soprattutto di vedersele sbriciolare sotto gli occhi. Anche Merkel ha un obiettivo politico, quello di non essere ricordata come colei che ha determinato, con testardaggine e scarsa lungimiranza, la crisi economica e politica dell’Europa. Perché, non v’è dubbio alcuno, l’Europa è ormai sinonimo di Eurozona: tutti gli altri Paesi sono dei comprimari, che non hanno alcuna funzione: fanno numero, esattamente ciò che la Gran Bretagna non tollerava più.

E’ qui il vero nodo del Vertice di Ventotene: tutto si è fatto per salvare l’Euro, niente per rafforzare l’Europa. Si è fatta più piccola con l’euro, più fragile ed ora più povera. La ricchezza di alcuni si fonda sulla povertà degli altri. Angela Merkel, come ogni altro tedesco, lo ha ribadito in ogni occasione: una condivisione dei debiti, ed una solidarietà attiva per sostenere i redditi nei Paesi più deboli, è da escludersi nel modo più assoluto: a Maastricht, come a Lisbona, un Muro è stato eretto, ed è invalicabile. Non saranno quindi i pochi decimi di deficit concessi, o i miliardi aggiunti al Piano Junker ad abbatterlo. Tutti hanno contribuito ad erigerlo, tutti sono complici di questa Europa così distante dagli ideali del Manifesto di Ventotene, che rimangono di una incessante attualità: visionari ieri, delusi oggi.

Ecco i veri obiettivi di Merkel, Hollande e Renzi dopo Ventotene

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