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Dopo Gustavo Zagrebelsky, schierato sul fronte referendario del no e clamorosamente bocciato all’indomani del confronto televisivo con Matteo Renzi sulla riforma costituzionale, Eugenio Scalfari ha scaricato un altro celebre amico: Ciriaco De Mita. Ma, diversamente da Zagrebelsky, ha preferito farlo con discrezione, ignorandolo del tutto nel consueto appuntamento festivo con i suoi lettori, su Repubblica: un gesto, in fondo, di alta cortesia umana, pienamente comprensibile alla luce della tanta considerazione manifestata dal già allora Barpapà verso De Mita quando divenne il maggiore antagonista politico dell’odiato Bettino Craxi e conquistando per questo la segreteria della Dc, nell’ormai lontano 1982. La conservò per ben sette anni, nell’ultimo dei quali sommando anche poco scaramanticamente la carica di presidente del Consiglio, con una concentrazione di poteri e di ruoli che in un partito complesso com’era lo scudo crociato era già costata cara negli anni Cinquanta ad Amintore Fanfani.

Nonostante fosse capitato proprio a De Mita, una volta assunta la segreteria del partito scudocrociato e perduti alle elezioni politiche del 1983 oltre il 5 per cento dei voti e 55 parlamentari, fra deputati e senatori, il compito di portare Craxi a Palazzo Chigi per la guida del primo governo pentapartito, esteso dai liberali ai socialisti, Scalfari continuò a considerare il leader democristiano come il più innovativo del partito pur sempre di maggioranza. E non smise di scommettere su di lui incoraggiandolo in quella guerriglia continua contro Craxi in cui si tradusse la formale alleanza di governo fra di loro, finita non a caso in modo traumatico nel 1987. Quando De Mita sloggiò di prepotenza il leader socialista da Palazzo Chigi e, pur di arrivare alle elezioni anticipate, fece astenere i deputati democristiani nella votazione di fiducia ad un governo monocolore dc guidato dal presidente uscente del Senato Fanfani, che aveva preso il posto di Craxi. Un governo che i socialisti, pur di evitare lo scioglimento delle Camere e con esso il rinvio dei referendum già indetti contro l’energia nucleare ma soprattutto per la responsabilità civile dei magistrati, avevano deciso di appoggiare lo stesso.

Obiettivamente, la testa di Craxi su un piatto d’argento più grosso di quello non poteva essere offerta da De Mita ad uno Scalfari smanioso ancora più di lui di liberarsene, considerandolo un “pericolo per la democrazia”, secondo la definizione datane quattro anni prima dall’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer, dopo i tagli anti-inflazionistici apportati  dal governo alla scala mobile dei salari. Tagli sui quali i comunisti promossero un referendum clamorosamente perduto nel 1985, eccetto che –guarda caso- a Nusco, il paese irpino di De Mita, dove prevalsero i sì all’abrogazione della legge.

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Debbo dire, fra le scosse telluriche che stanno facendo tremare anche la mia scrivania, che ai fini della decisione di ignorare la non brillante prova televisiva data nel confronto con Renzi, e di non dare quindi i voti negativi anche a De Mita come a Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica è stato fortunato. Egli ha trovato un’eccellente ragione, o pretesto, come preferite, in una telefonata fattagli addirittura dal Papa. Che ha voluto amichevolmente consultarlo – ha raccontato, comprensibilmente compiaciuto, lo stesso Scalfari – prima di partire da Roma per l’evento sicuramente straordinario della  partecipazione di un Pontefice di Santa Romana Chiesa, in terra svedese, alla celebrazione dei 500 anni dal concepimento della Riforma religiosa di Martin Lutero. Della cui vita Scalfari è uno studioso appassionato, e noto all’amico Francesco.

Così, il buon Barpapà ha avuto i suoi eccellenti motivi per lasciar perdere la riforma costituzionale sotto procedura referendaria in Italia, con annessi e connessi, per occuparsi di un’altra Riforma, stavolta con la maiuscola: quella luterana. E dei riflessi che ha avuto nella storia d’Europa e del mondo, dove la “galassia luterana”- ha raccontato Scalfari – conta 800 milioni di fedeli, anche se i luterani “veri e propri” ne costituiscono solo il 10 per cento.

Oltre a De Mita, dalla celebrazione della Riforma luterana ha tratto qualche vantaggio o svantaggio, secondo i gusti e i commenti che prevedibilmente ne avrebbe fatto Scalfari, la performance di Matteo Renzi nella piazza romana del Popolo – “non del populismo”, ha precisato il segretario del Pd e presidente del Consiglio – dove si sono raccolti, provenienti da ogni parte d’Italia, i sostenitori del sì referendario alle modifiche costituzionali. Un raduno disertato invece dai dissidenti del Pd, ad eccezione di Gianni Cuperlo, che spera ancora nel successo della commissione di cui fa parte per la definizione di una riforma della legge elettorale della Camera, cui egli ha notoriamente condizionato la rinuncia a unirsi al no dei vari Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Roberto Speranza e compagnia “bloccante”, come la definisce Renzi.

Gli ultimi sondaggi, a dire il vero, continuano a far prevalere il no sul sì, anche se con margini inferiori a quelli delle scorse settimane. Ma gli indecisi rimangono tanti –attorno al 26 per cento- da fare sperare il presidente del Consiglio in un recupero anche a sinistra, e non solo a destra, dove sembrava che Renzi si proponesse o preferisse pescare di più, prima di predisporsi più chiaramente a concessioni sulla riforma della legge elettorale della Camera.

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Sul fronte di quello che fu il centrodestra si registrano intanto segni crescenti di delusione e allarme per le  notizie diffusesi dopo la visita di Silvio Berlusconi al Quirinale. Dove il presidente di Forza Italia, pur confermandosi contrario alla riforma costituzionale, avrebbe garantito al capo dello Stato una disponibilità a non cavalcare contro Renzi un’eventuale vittoria referendaria del no. Una disponibilità che è bastata ed avanzata a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni per sospettare ancora di più Berlusconi di doppiogiochismo.

Un mezzo regalo a Berlusconi ha finito col farlo invece Ciriaco De Mita –incredibile a dirsi- con la contestazione fatta, nel confronto televisivo con Renzi, del vanto del presidente del Consiglio di avere voluto l’elezione al Quirinale del “galantuomo” Sergio Mattarella, anche a costo di rompere proprio con l’ex Cavaliere.

Anziché compiacersene, essendo peraltro Mattarella un amico, De Mita ha rinfacciato a Renzi di avere cercato e voluto l’elezione del presidente della Repubblica solo al quarto scrutinio, quando è sufficiente la maggioranza assoluta delle Camere e dei delegati regionali, e non nelle precedenti votazioni, quando ci vuole la maggioranza dei due terzi. Ben diversamente si comportò lui nel 1985 come segretario della Dc, quando portò Francesco Cossiga al Quirinale alla prima votazione. Insomma, De Mita avrebbe forse preferito un presidente eletto l’anno scorso anche da Berlusconi.

Ecco come Eugenio Scalfari ha scaricato Ciriaco De Mita dopo aver rottamato Zagrebelsky

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